mercoledì 18 gennaio 2023
Alla fine del secolo scorso il gesuita coglieva la disfatta dei gruppi dirigenti e ipotizzava un futuro nel segno del “culturale”: un'analisi sul nuovo numero di “Vita e Pensiero”
Michel de Certeau (1925-1986)

Michel de Certeau (1925-1986) - archivio

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Il numero del bimestrale “Vita e Pensiero” che conclude l’annata 2022, si apre con una riflessione del politologo Damiano Palano sulla politica italiana. Segue una lectio del cardinale Matteo Maria Zuppi, presidente della Cei, sulla collaborazione fra Europa e Africa come sfida del XXI secolo. La sezione discussioni è sulla pace possibile: intervengono F. Mannocchi, F. Vaccari, P. Ghezzi, C. Mazzucato. Sulla crisi del modello liberal, il politologo Adrian Pabst, mentre V.E. Parsi riflette sulle scelte autoritarie di Mosca e Pechino. Dell’inaspettato ritorno dell’Europa centrale parla il politologo J. Rupnik. Sulle mire della Cina interviene F. Fasulo, su papa Francesco e la pace in Sud Sudan, P. Impagliazzo. E ancora: l’Iran secondo R. Redaelli, su Smirne A. Arslan, sulla Shoah A. Foa. Anticipiamo infine un saggio del sociologo parigino Laurrent Fleury sul gesuita “scomodo” Michel de Certeau e la crisi delle élite.

Se Michel de Certeau guardava le istituzioni culturali con diffidenza, tuttavia le conosceva. Sollecitato dal Servizio degli studi e della ricerca del ministero degli Affari culturali, istituisce un rapporto critico con le istituzioni culturali senza per questo cedere all’ideologia che ne denuncia la stessa esistenza. Nel 1972 sottolineava il rischio della loro logica entropica: «Le istituzioni (cosiddette) culturali [...] si sono rammollite con l’aumentare di volume». Tuttavia non ne ha mai auspicato la scomparsa. Auspicava che «le istituzioni, soprattutto culturali, cessino di pensare solo a se stesse in termini difensivi di riserva di caccia e si volgano verso le altre, che dovrebbero servire, sostituendo la condiscendenza con l’accompagnamento, l’omogeneità burocratica con la diversità antropologica, l’identità di status con l’alterità» (“La culture dans la société” [1972], in La culture au pluriel, Seuil, 1993). Era consapevole dell’ambivalenza che sta alla congiunzione dell’istituito e dell’istituente, che conferisce alle istituzioni al tempo steSso il potere di condiscendenza, dominio, riproduzione, ma anche la potenza di offrire trascendenza, azione ed emancipazione se le loro pratiche significative scelgono il servizio, l’alterità, l’accoglienza e l’accompagnamento. Nel capitolo “Le lieu d’où l’on traite de la culture” (in La culture au pluriel, cit.) affronta la questione della cultura al singolare, in quanto essa traduce il singolare di un ambiente, si rivela il prodotto di una determinazione sociale. Fa l’esempio di una commessa di supermercato e mostra che ciò che lei intende con il termine “cultura” corrisponderebbe all’an- dare al cinema, in vacanza o incontrare gli amici. Invece per i colleghi del ricercatore la cultura indica tutto un altro ambito. Ora si tratta per lui di coniugare questi modi diversi di intendere la cultura, di volgersi verso una “cultura al plurale”. Precursore dei Cultural Studies, Michel de Certeau pone anche la questione del posto della cultura nella vita sociale. Il gesto di Michel de Certeau s’iscrive così in una attenzione senza precedenti per le culture popolari, da lui evocate sotto la denominazione di «la bellezza della morte, tanto più commovente e celebrata quanto più la si chiude nella tomba», ma che si distingue dalla cultura ordinaria di cui scruta gli usi e le tattiche. Vi sceglie l’ascolto dell’altro e scruta la cultura ordinaria fin nei più minuti dettagli della quotidianità per scoprirvi l’inventiva degli attori nel rapporto da essi instaurato con le tradizioni, intrise di ripetizioni e di variazioni. L’originalità della sociologia di Certeau delle pratiche culturali consiste dunque nell’affermazione, contro il dualismo che contrappone produzione e ricezione, di una dualità che le articola in una dialettica senza superamento. Quella che chiama «la produzione dei consumatori » apre così a una poietica della ricezione che rifiuta la credenza nell’univocità di un senso imposto, a favore della plurivocità e della reciprocità degli utilizzi. Indagando l’appropriazione, la fabbricazione del senso, la ricezione creatrice, Michel de Certeau pensa la cultura come delle «pratiche quotidiane che producono senza capitalizzare». Lo studio di quel che il consumatore “fabbrica” obbliga a porsi dalla parte degli utilizzi nella loro pluralità, segnati da quello che Richard Hoggart chiamava «lo sguardo obliquo» per indicare una ricezione attiva, non passiva. Se “leggere è un bracconaggio”, consumare, guardare e ascoltare gli si apparentano e non possono non evocare quel che Claude Lévi-Strauss chiamava un bricolage. Se Michel de Certeau avanza l’idea del bracconaggio è perché «le pratiche quotidiane, fondate sul rapporto con l’occasione, cioè sul tempo accidentato, sono sparpagliate lungo tutta la durata, nella situazione di atti di pensiero». Esse si rivelano inafferrabili, «indeterminate » ( L’invention du quotidien, 1980). La sua attenzione ai modi di appropriazione e di invenzione del quotidiano autorizza una sociologia degli effetti emancipatori della cultura. Piuttosto che privilegiare le dimensioni riproduttrici della cultura, essa s’interessa agli aspetti normativi e cognitivi dell’appropriazione culturale. Considerando le pratiche culturali nella loro potenzialità creatrice, schiva il dubbio scoglio del ruolo passivo del consumatore di industrie culturali e della riduzione delle pratiche culturali a un’esclusiva funzione distintiva. Irriducibili a un atto di consumo, le pratiche culturali possiedono un potere istituente, anche dal lato della ricezione. In questo modo l’individuo non è più “l’uomo a una dimensione” dipinto da Marcuse, prodotto dal consumismo: diventa cittadino, creatore in potenza. Michel de Certeau autorizza una pedagogia che mira ad “aprire possibili” [...]. Le politiche culturali sono attuate a partire dal momento in cui una società ha risposto ai bisogni fisiologici della popolazione. Nota che le azioni culturali traducono spesso sintomi o soluzioni ai cambiamenti strutturali della società. Osserva anche che la cultura è diventata neutra: avvento del “culturale” che sarebbe diventato una tasca contenente i problemi che la società non sa più affrontare. De Certeau affronta allora nuove questioni che ci lascia in eredità: secondo quali regole è definita la cultura? Quali vantaggi attendersi da una cultura che non ponga gli uni nella passività e gli altri nell’attività? Uscire dalla passività culturale basta a creare forze politiche? Egli auspica infine che la creatività non si chiuda nel piacere mercantile o in una pratica marginale all’organizzazione sociale. Plaude, al contrario, a una politica culturale in grado di uscire dall’anonimato dei discorsi, affinché i cittadini possano collocarsi e ottenere così la capacità di esprimersi. Le politiche culturali devono offrire, secondo lui, le condizioni di attuazione di una vita culturale plurale. Al termine di questo percorso, è possibile capire meglio in cosa una epistemologia plurale della cultura costituisca un gesto teorico di grande portata per noi oggi. L’eredità di Michel de Certeau fonda la sua attualità, la sua contemporaneità, e ci invita ad approfondire il suo gesto articolando comprensione delle dualità e sospensione del giudizio, per meglio imparare e autorizzare tanto la creazione quanto le pratiche nel loro potenziale di invenzione di modi di esistenza e di forme di vita. Il valore della sua eredità si rivela così etico e politico, per meglio accogliere e assumere la responsabilità alla quale la pluralità ci convoca.

(Traduzione di Anna Maria Brogi)

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