martedì 23 novembre 2021
Il Meis di Ferrara racconta come i confini dei quartieri ebraici, rigidi sulla carta e osmotici nella realtà, definissero un recinto di reclusione ma anche una custodia di identità
Il Portico di Ottavia, ingresso del ghetto di Roma, in una incisione di Piranesi

Il Portico di Ottavia, ingresso del ghetto di Roma, in una incisione di Piranesi - archivio

COMMENTA E CONDIVIDI

Partiamo da uno dei novanta artefatti esposti a questa grande mostra promossa e ospitata a Ferrara dal Meis, il Museo dell’ebraismo italiano e della Shoah. Partiamo dalle tavole lignee dipinte, che servivano alla costruzione della sukkà, ovvero la capanna necessaria una settimana all’anno per obbedire al comando divino di celebrare la solennità di Sukkot (come prescritto in Levitico 23), pareti mobili sopravvissute nei secoli e tra le quali gli ebrei ospitavano simbolicamente gli ushpizin, sette patriarchi biblici, facendo memoria del soggiorno nel deserto, dopo l’uscita dall’Egitto, e rallegrandosi con dolci e vino. Nella spiegazione, per il visitatore poco addentro ai riti ebraici, si legge tra l’altro che «nel 1702 a Roma il cardinal vicario emise un editto che vietava ai cristiani di unirsi agli ebrei nelle celebrazioni di Sukkot, pena il pagamento di una multa di 25 scudi» (piccolo paradosso, oggi quelle tavole sono di proprietà dell’abbazia di Praglia). Erano i tempi del ghetto, il recinto dai robusti portoni di legno, che si chiudevano a sera con pesanti chiavi e che dovevano separare i fedeli dell’una dai fedeli dell’altra fede, onde evitare contaminazioni e contatti, ma che di fatto spingevano chi stava dentro a voler uscire e chi stava fuori a voler entrare, per acquisti, scambi commerciali, bevute e financo avventure sentimentali. Infatti, a dispetto dell’editto vicariale, la gente – ebrei e non ebrei, dicono i documenti – entrava e usciva più spesso di quanto permesso o desiderato dalle autorità. Con poche differenze, quel che succedeva nel ghetto romano succedeva in quelli delle altre città italiane, fuori dallo Stato pontificio, a eccezione di Livor- no dove il granduca Ferdinando I aveva garantito agli ebrei, lì approdati dopo le espulsioni dalle terre spagnole, alcune libertà che gli ebrei della penisola si sognavano. La mostra del Meis è un accurato percorso, a tappe temporali e per assaggi d’arte e oggetti quotidiani, disegnato allo scopo di far comprendere la complessità della vita ebraica in ghetto, a partire dal primo, istituito dalla Repubblica serenissima nel 1516, ma ben presto adottato da papa Paolo IV Carafa (che lo chiamava “il serraglio degli ebrei”) e che divenne norma abitativa, appunto, nei diversi stati e staterelli italici, a eccezione della Toscana, fino alle rivoluzioni del 1848, e a Roma fino all’arrivo dei Savoia nel 1870. Un artefatto d’eccezione, in mostra, dice della sincera gratitudine provata dagli ebrei piemontesi verso i loro sovrani: nel 1884 donarono alla città di Torino un loro prezioso armadio sacro, un aron haqodesh( della fine XVII secolo) in cui si pongono in sinagoga i rotoli della Torà, dalle ante dorate e scolpite con i profili architettonici del Tempio di Gerusalemme. Per i ricorsi della storia, una decina d’anni fa tale armadio è tornato al suo servizio originario, in sinagoga. E come questo, sono decine gli oggetti che nell’esposizione – aperta fino al 15 maggio 2022 – raccontano questa storia, durata oltre tre secoli, di discriminazione e di creatività, di paura di contagio (interreligioso) e di astuzia (per aggirare i divieti), di vessazioni (incluse le ingenti tasse) ma anche di scambi e di compromessi all’insegna del primum vivere. Stupisce solo fino a un certo punto che nel ghetto di Venezia, nella prima metà del XVII secolo, una donna ebrea come Sara Copio Sullam potesse aprire e animare un cenacolo di letterati e filosofi, frequentato alla pari da ebrei e cristiani, persino da canonici. «Il ghetto è un concetto complesso », spiega la storica Serena Di Nepi, che nasce da scelte politiche e teologiche ma che resta un mondo vitale, come dicono i sociologi, e come tale irriducibile alle condizioni repressive per cui è nato, deprecabile come serraglio ma apprezzabile come luogo di protezione, capace d’altro canto di facilitare la conservazione e la trasmissione di costumi e credenze, come ogni minoranza sa bene. Complesso significa dunque ambivalente, dove il dentro e il fuori sono marcati da confini per nulla rigidi, o rigidi sulla carta ma osmotici nella realtà, nella vita quotidiana. La mostra documenta questa osmosi, che ha reso spesso gli ebrei italiani più italiani che ebrei, specie nel XIX secolo, quando i portoni dei ghetti furono rimossi, anzi abbattuti, e scoppiò l’entusiasmo risorgimentale, l’affiliazione alla carboneria e alla massoneria, la voglia di essere “italiani di religione mosaica”. Grandi sogni che spinsero ad altrettanti grandi sforzi d’integrazione e assimilazione a tutti i livelli (dall’amministrazione pubblica all’esercito, dalle professioni liberali all’accademia), quasi un’ubriacatura di libertà, che segnò, ecco l’altra faccia della medaglia, un allontanamento dalle tradizioni religiose, dall’osservanza dei precetti, dallo studio della Torà. Ci volle il “tradimento” del governo e del re, con le leggi razziali del ’38 e infine le deportazioni, per far riscoprire agli ebrei italiani il loro ebraismo, per ribilanciare la loro identità. Secondo alcuni, come il rabbino Alberto Moshe Somekh, la crisi (non solo demografica) dell’ebraismo italiano affonda le sue radici in quel che avvenne all’apertura dei ghetti. Vera o meno tale diagnosi, resta verissimo che il ghetto fu ed è un capitolo di storia italiana, un viaggio tra speranze e delusioni, un oscillare tra creatività e frustrazione, che l’esposizione ferrarese fa toccare con mano attraverso opere mai mostrate prima al grande pubblico: le meghillot ossia i rotoli di Esther usciti dalla Palatina di Parma (una delle biblioteche con il maggior numero di manoscritti ebraici al mondo); la tela Esther si inchina ad Assuerodi Sebastiano Ricci, prestito del Quirinale; un rarissimo Rapimento di Edgardo Mortara del pittore Moritz Daniel Oppenheim, proveniente da una collezione privata americana; i contratti matrimoniali detti ketubot con i ritratti di Vittorio Emanuele II, Cavour e Garibaldi del museo ebraico di Soragna; gli attestati di partecipazione ai primi congressi sionisti di Felice Ravenna; e molto altro. È una mostra pensata da quattro curatrici (Andreina Contessa, Simonetta Della Seta, Carlotta Ferrara degli Uberti e Sharon Reichel), studiose impegnate nella ricerca sull’ebraismo italiano. Il catalogo, pubblicato da Silvana Editoriale, è una galleria di volti prima che di oggetti, un intreccio di storie umane più che di perimetri urbani. Come lasciò intendere Primo Levi, il ghetto è sempre dietro l’angolo, è fuori ma può ben essere anche dentro, dentro di noi.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: