venerdì 12 marzo 2021
A un anno dall’inizio dell’emergenza, le voci di scrittrici e scrittori si rivelano sempre più preziose per esplorare il significato di un’esperienza tanto drammatica
“La peste di Asdod”  di Nicolas Poussin  (1630-1631), conservato al Louvre di Parigi

“La peste di Asdod” di Nicolas Poussin (1630-1631), conservato al Louvre di Parigi - WikiCommons

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Da un anno a questa parte la pandemia ha drasticamente cambiato il nostro presente e ha reso incerto il futuro. E fin qui ci siamo. Ma che il Covid-19 abbia trasformato la percezione del passato è una nozione meno immediata. Prendiamo la letteratura. A emergenza appena cominciata in molti hanno tirato giù dallo scaffale la loro copia dei Promessi Sposi o della Peste di Camus. Poi, lentamente, sono iniziati gli affioramenti di titoli non meno pertinenti, dall’Edipo Re di Sofocle al al Diario dell’anno della peste di Defoe, dal Decameron a Nemesi, l’ultimo dei molti romanzi di Philip Roth. Mentre il confinamento si protraeva, insomma, chi voleva era in grado di accorgersi che quella storia – la storia di una società aggredita da una malattia che ne sconvolge le abitudini e mina le relazioni sociali – era già stata raccontata spesso lungo i secoli. Parlava di noi già allora, secondo il classico principio del de te fabula narratur: se una storia ti appassiona, potremmo tradurre, è perché ti riguarda.

A tirare le fila di questa epopea più che millenaria, nella quale si ritrovano bubboni e quarantene, superfici contaminate e mascherine di foggia imprevedibile, è un libro d’erudizione scritto in presa diretta, ossia Racconti contagiosi di Siegmund Ginzberg (Feltrinelli, pagine 332, euro 18,00). Nella sua nota finale l’autore spiega di essersi trovato per la seconda volta, nel giro di pochi anni, nella condizione di interrompere un progetto già avviato per occuparsi di un argomento tanto imprevisto quanto minaccioso. Se dal riemergere di populismi e nazionalismi era nata l’allarmante riflessione di Sindrome 1933 (un saggio più volte elogiato anche da papa Francesco), dalle angustie del lockdown sono usciti appunto questi Racconti contagiosi, dai quali moltissimo si impara. Che la letteratura sembra aver fatto di tutto per passare sotto silenzio l’epidemia di spagnola seguita alla Prima guerra mondiale, per esempio, anche se basta rileggere in controluce La signora Dalloway di Virginia Woolf per scovare numerosi riferimenti a quella che, anche allora, fu molto più che un’influenza.

Attraverso l’analisi minuziosa di una vastissima quantità di testi non solo d’invenzione, ma appartenenti anche alla letteratura scientifica e alla tradizione iconografica (particolarmente accurata è l’analisi della Peste di Asdod, il dipinto di Nicolas Poussin ispirato agli eventi riferiti nel Primo libro di Samuele), Ginzberg arriva a individuare una sorta di schema narrativo ricorrente. Per strano che possa apparire, infatti, anche quando si trovano nella condizione di testimoni oculari gli scrittori finiscono per attingere alle soluzioni di un patrimonio che risale all’Atene del V secolo a.C., con la prosa di Tucidide a fare da modello. Ma non va sottovaluto il fatto che, in epoche e in nazioni diverse, i cronisti sono costretti a registrare decisioni governative che finiscono sempre per assomigliarsi tra loro e che sembrano necessariamente prevedere una prima fase di illusoria – e fatale – sottovalutazione.

Quella di Racconti contagiosi è una ricognizione pressoché completa e sempre ragionata, nella quale non rientra però, se non incidentalmente, il tema della vaccinazione. Attualissimo e per certi aspetti, purtroppo, ancora futuribile, ma a sua volta portatore di un passato che può essere ricostruito facendo appello alla memoria letteraria. Lo dimostra bene una recente coppia di saggi, dedicati entrambi al primissimo vaccino della storia, quello contro il vaiolo. Si tratta di Lady Montagu e il dragomanno di Maria Teresa Giaveri (Neri Pozza, pagine 158, euro 17,00) e di «L’immortale britanno» di Valentina Sordoni (Storia e Letteratura, pagine XII+132, euro 16,00). In apparenza i protagonisti non potrebbero essere più distanti: Lady Mary Wortley Montagu (1689-1762) è una delle figure più rilevanti del Settecento inglese, intellettuale finissima e all’avanguardia, autrice di un corpus epistolare ricchissimo di notazioni e intuizioni; nel libro di Sordoni è invece di scena Monaldo Leopardi (1776-1847), padre di Giacomo e fiero oppositore di ogni pretesa illuminista.

A un esame più attento, la nobildonna inglese e il conte italiano sono accomunati dall’interesse e addirittura dall’entusiasmo per la pratica della vaccinazione, della quale Lady Montagu viene a conoscenza durante il suo soggiorno a Istanbul tra il 1716 e il 1717. In quel momento l’inoculazione appartiene ancora al patrimonio dei rimedi popolari ed è, per di più, un rimedio dispensato dalle donne, che somministrano la materia infetta custodita in gusci di noce. Secondo Giaveri questa origine femminile del procedimento, che Lady Montagu importa in Gran Bretagna applicandolo ai propri figli, spiega almeno in parte l’ostilità della comunità scientifica, che si convincerà dell’efficacia della vaccinazione solo grazie agli studi di Edward Jenner. Proprio lui, Jenner, è l’«immortale britanno» ricordato da Monaldo Leopardi nel paradossale Ragionamento accademico in lode del vajuolo che Sordoni riproduce in appendice al suo libro. L’exploit retorico non deve trarre in inganno. All’atto pratico, infatti, Monaldo fu un sostenitore convinto del vaccino, al quale furono sottoposti i suoi figli, compreso Giacomo che, a quanto risulta dagli appunti del padre, dimostrò una particolare sensibilità all’inoculazione.

Il Ragionamento di Monaldo porta la data del 1803 e si inserisce in un contesto nel quale il vaccino sta diventando un motivo letterario riconosciuto. Alla precoce ode sull’Innesto del vaiuolo di Giuseppe Parini (1865) farà seguito il poema in ottave Il Trionfo dellaVaccina di Gioacchino Ponta, coevo dell’incompiuta Vaccina di Alessandro Manzoni. Quanto a Giacomo Leopardi, l’immunità al vaiolo non gli impedì di morire durante l’epidemia di colera che era tornata a colpire Napoli nel 1837. Se ne occupa nel dettaglio Gigi Di Fiore nel suo Pandemia 1836 (Utet, pagine 202, euro 17,00), approfondita ricostruzione della politica sanitaria adottata all’epoca dal governo borbonico. Anche due secoli fa, o quasi, l’infezione era arrivata da Oriente, aveva imperversato nell’Italia del Nord e solo più tardi si era diffusa al Sud. È una storia che conosciamo, una storia che ci riguarda.

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