domenica 25 ottobre 2020
Luca Pisoni ha indagato i “bagagli” di persone in fuga da Africa e Asia in cerca di nuova vita in Europa. Quali sono i loro oggetti davvero irrinunciabili? Gli stessi che porteremmo noi
Migranti salvati nel Mediterraneo

Migranti salvati nel Mediterraneo - Ansa

COMMENTA E CONDIVIDI

«Ban Demba, un senegalese di 25 anni, aprì l’armadietto e tirò fuori un sacchetto di plastica da cui estrasse un paio di pantaloncini lunghi fin sotto il ginocchio, che indossò cambiandosi quelli che già portava per potermeli mostrare meglio. “Questi”, mi disse, “sono i pantaloni che avevo quando sono partito da casa. Li indossavo sul barcone col quale sono arrivato in Italia. È l’unica cosa che mi è rimasta. Gli scafisti mi hanno obbligato a gettare il resto e una volta arrivato a Lampedusa ho ricevuto dei vestiti nuovi. Ho buttato quelli che si erano sporcati e rotti durante il viaggio, ma questi pantaloni li ho tenuti”».

Nell’estate del 2016 – al termine del periodo del “grande flusso” siriano –, Luca Pisoni si trova nella residenza Fersina di Trento deciso a scoprire un aspetto finora trascurato negli studi sulle migrazioni. Che cosa contiene lo zaino di chi è costretto a lasciare la propria casa per sfuggire a guerre, persecuzioni, catastrofi naturali, condizioni di vita indegne? Che cosa porta con sé chi deve affrontare interminabili viaggi–calvari attraverso deserti, labirinti urbani, corridoi di mare apparentemente invalicabili? Pochi oggetti e di dimensioni ridotte, è ovvio. Proprio per questo, però, ancora più importanti. Il bagaglio viene riempito solo con quanto viene considerato irrinunciabile. Decifrandolo, si ha accesso al carico di aspirazioni, di ricordi, simboli materiali e spirituali dei migranti. Al loro “bagaglio intimo”.

Ed è proprio Il bagaglio intimo. Gli oggetti dei migranti in viaggio verso l’Europa, il titolo del saggio che Pisoni ha pubblicato per Meltemi Linee (pagine 112, euro 14,00). Una ricerca pionieristica di etno–archeologia delle migrazioni in cui la curiosità scientifica si combina con una forte passione civile. Lo “sbirciare dentro lo zaino” dell’autore, pagina dopo pagina, diventa uno sforzo utile e necessario per ridare sangue, spirito e storia a quanti troppo spesso vengono rappresentati come massa informe. Insieme ai crocifissi appesi al collo o tatuati sul corpo, alle mini Bibbie e ai piccoli Corani infilati nelle tasche, ai bracciali regalati dai propri cari, alle foto dei momenti più felici conservati nello smartphone, irrompe sulla scena la concreta umanità di Tekle, Samba, Nehelè, Sule, Majid, Walid, Rasib e dei molti altri individui incontrati da Pisoni nei treni dal Brennero e nel centro di accoglienza di Trento.

Nello spazio del racconto essi tornano protagonisti delle loro esistenze, sballottate dal caos fluido dell’esodo. Quando il ricercatore si accosta, un giovane del Corno d’Africa gli mostra la sua Bibbia. «Notavo la reverenza e il rispetto con i quali il ragazzo la maneggiava e intuivo che per lui fosse un oggetto d’uso quotidiano, in quanto aveva gli angoli delle pagine piuttosto logori. Mi disse che gliel’aveva regalata il suo parroco e che l’aveva portata con sé durante tutto il viaggio, rischiando la vita in Libia, infestata dal Daesh, quando era riuscita a nasconderla mettendola nel fodero della giacca».

Il pachistano Umar esibisce la cintura in cui è racchiusa una piccola scatola, al cui interno si trova un plico di fogli delle dimensioni di una scatola di fiammiferi. «Si trattava di una copia miniata del Corano, regalategli dalla madre una decina d’anni prima, che portava sempre con sé nel bagaglio o legata al braccio. Con quell’oggetto, oltre ad avere un caro ricordo della madre, il ragazzo diceva di sentirsi protetto da quanto di brutto sarebbe potuto accadergli». I simboli religiosi hanno una valenza speciale per i migranti. Nei loro bagagli, però, non mancano oggetti più imprevedibili. Samba si è portato dal Senegal la divisa «che indossava durante le partite della squadra di calcio della sua città».

Walid è riuscito a non separarsi dal suo kajal, una specie di matita con cui gli uomini afghani sottolineano gli occhi. Mentre Majid, al secondo intento di raggiungere la Germania da Kabul, s’è nascosto nello zaino la tuta da ginnastica della nazionale di calcio e una mazza da cricket. Rasib, invece, estrae dal bagaglio un «paio di scarpe eleganti che non aveva utilizzato per il viaggio ma gli sarebbero servite, diceva, una volta stabilitosi in Europa per uscire e farsi delle amicizie». Nel caleidoscopio di manufatti, spicca una costante: il telefono. «Oltre a soddisfare le questioni logistiche, lo smartphone contiene musica, fotografie, numeri di telefono e può essere considerato il corrispettivo digitale del portafogli e del taccuino». Per questo, «la possibilità di essere derubati durante il viaggio spinge i migranti a viaggiare con la Sim e la scheda di memoria separate dall’apparecchio».

La conclusione a cui arriva Pisoni fa piazza pulita di ogni stereotipo. «Gli oggetti che stanno nelle tasche dei profughi sono gli stessi che stanno nelle nostre». Ricerche etnografiche condotte nei primi anni Duemila in metropoli come Londra, Tokyo e Los Angeles, rilevano che le persone, per affrontare gli impegni di tutti i giorni, portano in tasca foto e immagini di famiglia, icone, amuleti e simboli religiosi; articoli per l’igiene personale o per la presentazione di sé, chiavi, documenti, oltre, naturalmente, al cellulare. «La vita quotidiana, dunque – conclude Christian Arnoldi nella postfazione – è per tutti gli individui un terreno di conquista, sul quale si svolge il disperato tentativo di dare ordine al caos e all’ignoto». Certo, per i migranti «la forza della corrente degli eventi è più aggressiva e gli strumenti a loro disposizione per arginarla, elaborarla e assimilarla sono limitati». Come ciò che può essere contenuto in uno zaino.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: