martedì 27 settembre 2016
La CRITICA nella Rete: e il recensore diventa social
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Lo confesso: quello con Raffaele Manica, critico letterario e saggista della generazione oggi di mezzo, è l’appuntamento quotidiano che non manco mai su Facebook. Si tratta di post in cui si possono leggere passaggi come questo, con tanto di foto allegata: «Immagini della Malatestiana di Cesena, per esempio. Si scaccia come una mosca la domanda, via, se ci fece mai una capatina Marino Moretti quel mercoledì che pioveva, per sottrarsi alla consueta malinconia, aggiuntovi il rammarico per lo sposalizio della sorella». O anche: «Racconta il regista Sandro Bolchi: “Finito il provino, andando via, Johnny Dorelli inciampa”. Ed è subito Zeno». E ancora: «Lo struggimento e l’ansia del confine sono recati in Quarantotti Gambini da una scrittura di grande calma sotto la quale agisce una febbre almeno di stessa grandezza». Eleganza, inventività e una trama sottile, appena dissimulata, di riferimenti e richiami culturali. Questo per dire che sul social network più affollato del mondo non si trovano soltanto i referti di un’egolatria  che chiede di essere riconosciuta, qui e ora, nella propria autoevidenza biologica, di crasso e cieco materialismo, tra selfie, esibizione di cibi e griffe. Manica è, infatti, solo l’ultimo arrivato (e finalmente) d’una folta schiera di scrittori, critici e saggisti che, sulla propria bacheca virtuale, resistono alla morta gora dell’insignificanza, citano, suggeriscono, riflettono e commentano, propongono e, non di rado, creano. Potrei citarne molti altri, di questa generazione: da Filippo La Porta a Fulvio Abbate e Filippo Martorana da Alba Donati e Bianca Garavelli, sino al quasi cinquantenne Fabrizio Coscia, che continua qui l’originalissima sperimentazione, tra ritratto memorabile e autobiografia, di moralità rappresa, già avviata nel suo intenso Soli eravamo (2015). Ma non posso dimenticare, in questa truppa, il narratore Andrea Carraro, che va annotando ogni giorno, con esilarante sarcasmo, il romanzo delle sue passioni e della sua idiosincrasia: «Le case con le librerie piene solo dei classici usciti con Repubblica mi rendono aggressivo». Ma anche: «La critica letteraria non può e non deve rimanere sempre sulla corda della meraviglia altrimenti alla lunga diventa poco credibile». E le sorprese non mancano, se s’intercetta, molto attivo sui post altrui, uno che di fatto è già un classico, come Salvatore Mannuzzu, il gauchiste che commenta con grande intelligenza e dottrina la Messa del giorno. Senza dire, scendendo per li rami, di Renzo Paris, Mario Baudino, Antonio Di Grado. Né mancano i giovani e i giovanissimi: Giuseppe Genna, Roberta Lepri, Sabrina Longari, Anna Vallerugo e Carmen Pellegrino; Domenico Calcaterra, Raffaello Palumbo Mosca, Giuseppe Giglio e Andrea Caterini; Giuseppe Mussi, Chiara Fenoglio e Mariella Bellinvia; Paolo Di Paolo, Matteo Marchesini e Crocefisso Dentello, per citarne davvero pochissimi. Tutti quanti, con una folta schiera di followers che li segue e li incalza. Se indugio sui rapporti, diciamo così, tra critica e social- network, tralasciando il fenomeno ormai dirompente dei blog, è in virtù d’una convinzione che vorrei rafforzare con qualche argomento. Ecco: una volta sviluppatisi i social sul Web, un’idea della critica come critica della vita non poteva non trovare nella Rete uno dei suoi luoghi più facili e agevoli per svilupparsi. E non dico ciò con ovvio riferimento a libri che, in assenza della frenesia del Web, non sarebbero nemmeno nati: mettiamo Indaffarati (Bompiani) di La Porta. Ma in un senso storicamente ed epistemologicamente più determinato. Ecco, per provare a capire quel che è accaduto in questi anni in Italia nella critica, credo si dovrà risalire alla seconda metà degli anni ’70, quando Alfonso  Berardinelli, Franco Brioschi e Costanzo Di Girolamo erano impegnati a decostruire e demistificare la trionfante dogmatica strutturalistico-semiologica e il conseguente mito della scientificità in letteratura: anni in cui pronunciare la parola vita o quella d’autore, in ambito critico-letterario, significava consegnarsi all’accusa di puerilità teorica e superficialità impressionistica.  Quando, però, quell’edificio crollò quasi all’improvviso, anche a causa dell’autorevolezza di nuove star internazionali (da Steiner a Bloom), dissipata la polvere tra le macerie, a emergere come maestri furono critici, rimasti sino ad allora confinati nella loro eccentricità: non dico il comunque celebratissimo Debenedetti, ma i Garboli e i Baldacci che tantissimo, appunto, contarono per questa generazione oggi di mezzo, che s’andava allora formando. Ritornava infatti in auge la vocazione al saggio che, meglio di tutti, era stato Franco Fortini ad autorizzare con la sua suggestiva definizione della figura del critico -genere, quello del saggio, della cui storia e teoria Berardinelli si apprestava a diventare il massimo conoscitore. Così Fortini: «Svolgere il discorso critico vuol dire allora poter parlare di tutto a proposito di una concreta e determinata occasione. Il critico allora è esattamente il diverso dallo specialista».  Già: parlare di qualcosa, per parlare di tutto, con rigorosa e misteriosa coerenza, con disinteressato piacere, esclusivamente in vista dell’intelligenza della vita. Disposizione finalmente possibile, proprio perché s’inaugura, considerata la totale perdita di aura del critico, la sua assoluta marginalità nella società contemporanea, una rinnovata e sinora impensabile condizione di libertà, non avendo il critico più nulla da perdere.  Scrive Giorgio Ficara, un altro elegante protagonista della generazione di mezzo, nel bellissimo Lettere non italiane (Bompiani), dedicato a una valutazione appassionata e franca dello stato dell’arte della nostra letteratura: «Il critico che dice la sua su un autore, oggi più che mai deve rispondere di se stesso, deve ribadire e ristabilire i confini della sua stessa disciplina». Un ribadimento e una ridefinizione che, proprio in Rete, hanno forse trovato un’insperata e giovevole occasione per dispiegarsi al meglio.
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