giovedì 7 aprile 2011
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Si parla molto del ruolo dei cristiani del Medio Oriente nelle trasformazioni delle cronache di questi giorni. C’è il rischio, però, di cadere in letture parziali, figlie di un’analisi legata più alla conoscenza di oggi che alla storia di questo angolo cruciale del mondo. Perché, allora, non provare ad analizzare realmente che cosa c’era c’era prima dei regimi che ora vacillano? È quanto propone Giorgio Del Zanna, docente di storia dell’Europa Orientale all’Università Cattolica di Milano, nel saggio storico I cristiani e il Medio Oriente (1798-1924), appena pubblicato da Il Mulino (pp. 368, euro 25). È una ricognizione dettagliata sul ruolo dei cristiani nella stagione delle riforme dell’impero ottomano, fino all’epilogo segnato dalla sconfitta nella Prima Guerra mondiale. Un’analisi che rivela parallelismi interessanti con la situazione di oggi.Siamo abituati a sentire parlare dei cristiani del Medio Oriente attraverso la categoria della minoranza. Lei invece offre un altro tipo di sguardo, perché?«Quello ottomano era un mondo plurale, con comunità tra loro diverse che vivevano dentro il sistema imperiale ciascuna con un ruolo molto attivo. Era il modello dei millet, comunità cui era lasciata un’ampia autonomia rispetto alla legge islamica in cambio della lealtà all’impero. Dentro a questa cornice i cristiani – in particolare – erano una componente estremamente dinamica: il loro protagonismo andava ben oltre il loro spessore numerico. Nel processo di modernizzazione delle società del Medio Oriente che avvenne tra l’Ottocento e l’inizio del Novecento giocarono un ruolo molto importante. Diventeranno minoranza solo dopo, quando il sistema imperiale entrerà in crisi e anche qui si affermeranno i nazionalismi».Nel libro lei la definisce un’età dell’oro dei cristiani dell’Oriente. In che senso?«Intanto fu una stagione di grande crescita demografica: guardando all’intera area arrivarono ad essere il 20% della popolazione, quando oggi sono meno del 6%. Ma soprattutto furono i grandi mediatori tra il mondo ottomano e l’Europa. Beneficiarono delle politiche riformiste dell’impero, anche in termini di parità. E questo permise loro di mettere in circolo delle idee, di lavorare da protagonisti per la modernizzazione della società. Fu una stagione molto particolare che oggi abbiamo completamente dimenticato. Nella lettura della storia si dà molta centralità al tema dell’islam, dimenticando il fatto che tra il XIX e l’inizio del XX secolo quello ottomano era, appunto, un mondo plurale. In un certo senso la tesi dello scontro di civiltà ci ha portato ad appiattire la storia».Che cosa, allora, andò storto, portando alla marginalizzazione dei cristiani in Medio Oriente?«L’irrompere del modello nazionale tipico della cultura occidentale ha portato a pensare la propria identità sempre di più in termini di esclusivismo. E questo alla fine in Medio Oriente ha portato all’affermarsi dell’islamismo. Ma il fatto paradossale è che i primi a introdurre l’idea nazionale nel mondo ottomano furono proprio i cristiani. L’idea che i confini della nazione debbano corrispondere a quelli dell’etnia irrompe nei Balcani con i greci e gli slavi, innescando quel caso turco che porterà tragicamente alla distruzione dell’idea di pluralismo attraverso i massacri, come quello armeno, frutto del nuovo nazionalismo dei "Giovani turchi". Il problema fu la mancata elaborazione di una sintesi che sapesse reinterpretare in modo nuovo quella storia plurale. Che è poi proprio la grande questione che sta dietro alle rivoluzioni di oggi».Vuole dire che il Medio Oriente oggi è tornato allo stesso bivio?«Venendo meno i regimi su cui si fondava quel tipo di nazioni nate dalla fine dell’impero ottomano, torna alla luce l’estrema fragilità dell’operazione. Interi Paesi rischiano di dividersi proprio perché riemerge un mosaico che non è stato mai composto in una sintesi. È un discorso che non vale solo per i cristiani: pensiamo ai curdi in Turchia o alle minoranze sciite in Paesi sunniti. La sfida che sembra emergere è quella di costruire nazioni dall’identità forte ma accettando sul serio l’elemento plurale. E il fatto che in piazza Tahrir al Cairo ci fossero insieme musulmani e cristiani è un segno importante in questo senso. Vorrei dire, però, di più: questa sfida che vediamo oggi in Medio Oriente in qualche modo è la stessa che tocca le stesse nostre società: anche noi qui in Europa siamo sempre più chiamati a ripensare la nostra identità nazionale a partire da un nuovo contesto di società che sono plurali. Pensiamo al tema dei nuovi italiani, i figli degli immigrati».Ma c’è davvero spazio per i cristiani in questa nuova stagione che si sta aprendo in Medio Oriente?«Io credo proprio di sì. Nonostante tutte le difficoltà non è un caso che i cristiani in quelle piazze ci siano: non solo al Cairo, ad esempio anche a Daraa, in Siria. È l’occasione per rilanciare in queste società una proposta plurale seria, che metta al centro il tema della piena cittadinanza per tutti. Ed è un modello che ha una storia e una tradizione di riferimento. Credo che uno dei grossi problemi su questa strada sia la debolezza delle società civili, che è proprio il frutto della fine della stagione di cui parlo nel libro. Credo che la marginalizzazione e l’esodo dei cristiani siano stati uno dei fattori che hanno rallentato la crescita di società civili mature. Ed è una delle frontiere su cui l’Europa potrebbe aiutare».
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