mercoledì 30 ottobre 2013
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«Mio padre è svedese, mia madre italiana, e io sono nato in India. Ed è lì che ho iniziato a giocare a cricket. E questa mia grande passione ho potuto continuare a coltivarla quando quattro anni fa sono arrivato a Genova. Ora gioco con tanti ragazzi asiatici, nati o vissuti qui, ma che si sentono come me, più italiani degli italiani...».È il racconto di Pashupatti, «in lingua indi, “Signore degli animali”» di cognome Alsen, 23 anni, che una volta sbarcato a Genova si mette in contatto con lo srilankese Niranga, il capitano del Genoa Cricket and Athletic Club, la società più antica d’Italia, fondata nel 1893 dagli inglesi, assieme all’omonima e gloriosa squadra del Grifone, l’11 del primo scudetto del nostro calcio. Al primo allenamento, allo stadio Carlini, la doppia sorpresa: capitan Niranga scopre che l’indiano Pashupatti è un bianco, mentre l’indo-italo-svedese a sua volta si rende conto che su quel campo c’era «tutto il Commonwealth»: pakistani, srilankesi, indiani, australiani, bengalesi. La maggior parte sono i rappresentanti di quel Subcontinente indiano che in Italia conta circa 300mila potenziali giocatori. Stranieri d’Italia che luogo comune, ma spesso anche becero razzismo, etichettano come «i bengalesi, ovvero quelli che vendono le rose, gli srilankesi che lavorano nelle imprese di pulizie, i pakistani metallurgici, gli indiani allevatori. Massimo rispetto concesso solo per quegli indiani che rimandano a Bollywood, al film Oscar “The Millionaire”, in quanto nuova superpotenza che esporta già tanto nel mondo, cricket compreso», spiega Ilario Lombardo, autore con Giacomo Fasola e Francesco Moscatelli di <+corsivo>Italian cricket club<+tondo> (Add Editore).Un raro libro di sport imperdibile, che andrebbe divulgato nelle scuole. Perché la maggioranza dei nostri connazionali non sa che stiamo parlando della miglior forma di integrazione sociale attraverso lo sport, presente nella nostra modernissima e non sempre civilissima società multirazziale. Il cricket è lo sport di squadra più universale subito dopo il calcio, «peraltro si gioca 11 contro 11, ma le affinità finiscono qui», puntualizzano Fasola e Moscatelli. Una disciplina, infatti, più affine al baseball: chi lancia deve eliminare i battitori, colpendo il wicket (i tre paletti infilati nel terreno, dietro al battitore). Il match dura da qualche ora a diversi giorni. «I professionisti giocano sfide “infinite” da 5 giorni, ma nella nostra Serie A, le sei squadre partecipanti si confrontano sulle sei ore, il tempo massimo del cricket ridotto», spiega Pashupatti. «Lanciare e battere la palla è stato sinonimo di emancipazione e liberazione, di nuova coscienza di sé» da parte dei popoli coloniali rispetto alla “matrigna” Inghilterra. Ma la minoranza rumorosa e pregiudiziale, nella sua ignoranza, non masticando bene l’inglese ignora l’idiomatica: «It’s no cricket», che in campo è sinonimo di giocare nel massimo rispetto del fairplay, mentre nella vita di tutti i giorni, suona come, comportati bene «non è accettabile, non sì fa». Un monito che affonda le sue radici storiche nel gioco importato in Inghilterra dai padri fiamminghi (i pionieri del “krick”, «bastone» in lingua fiamminga) nel XIV secolo. Con il colonialismo la pallina è stata rilanciata in Asia. Con un «catch» magistrale, l’hanno afferrata al volo India e Pakistan, Paesi in cui il gioco è anche una questione politica: «La storia insegna che per una sfida tra le due nazionali cessano le guerre e sì fa la pace» e i giocatori sono delle autentiche star, alla Usain Bolt, i cui esordi non furono nell’atletica leggera, ma nel cricket.Da noi il passaggio è stato più lento, la Federazione cricket esiste soltanto dal 1980. Ma in questi trent’anni il movimento sta lentamente crescendo (una trentina di scuole cricket e quasi 2mila tesserati) «grazie agli stranieri» e quindi per i risultati importanti, come i due titoli europei conquistati dall’Under 15 nel 2009 e dalla Nazionale maggiore la scorsa estate a Londra. Una doppia vittoria per il capitano Alaun Din, 40enne pakistano, «ma parla siciliano», il quale dopo vent’anni in ansiosa e legittima attesa di vedersi riconosciuta la cittadinanza italiana l’ha ottenuta al suo ultimo «delivery», l’ultimo lancio prima di chiudere l’onorata carriera in azzurro. Quella cittadinanza la sta ancora aspettando Niranga e tanti dei giocatori che militano e onorano le nostre rappresentative (nell’Under 15, 11 su 13 azzurrini erano figli di stranieri) nelle quali invece per essere selezionati bastano quattro anni di residenza continuativa in Italia (sette anni per gli adulti). Il cricket rilancia ancora e mette in fuori gioco sia lo ius sanguinis che lo ius solis, puntando sull’emancipatissimo principio della “cittadinanza sportiva”. «Il cricket ha anticipato dieci anni fa i tempi. Non c’è futuro se non si crea integrazione», ha recentemente ribadito il presidente del Coni, Giovanni Malagò. Integrazione con il cricket, è la parola magica che muove ogni giorno decine di ragazzi nelle aree metropolitane (Milano, Roma che ha la squadra campione d’Italia) e nei parchi della sterminata provincia. Uno dei problemi maggiori rimane proprio il reperimento degli spazi dove giocare. Ma per fortuna nuovi campi stanno nascendo e stadi di calcio ospitano le gare delle squadre, date in sensibile aumento, che altrimenti potrebbero trovarsi di fronte a situazioni limite, come la “Guerra di Brescia”: quattro anni fa chi si allenava al parco veniva multato dai vigili per aver violato le aree verdi. Manca a volte «l’undici» per mettere in piedi una squadra o i «4 italiani» - in questo caso si trasformano negli “stranieri in casa” - che per regolamento devono essere tesserati affinché il club possa iscrivere al campionato. «E anche in questo caso mancando sponsor, non siamo mica il calcio, si fa fatica anche a trovare quei 20-25mila euro necessari per affrontare i costi dell’intera stagione». Commento con riso amaro di Pashupatti che, però, anche oggi dopo aver finito il suo lavoro di mediatore culturale e chiuso il libro di studente universitario in Scienze Motorie, va al campo ad allenarsi con il suo Genoa Cricket, in cui resta il primo oriundo bianco e il «mio compagno Enrico Penello, l’unico italiano doc».​
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