mercoledì 7 febbraio 2024
La tensione che spinge da sempre a voler capire il motivo per cui siamo al mondo è testimone di una domanda irriducibile a qualunque spiegazione razionale. La riflessione del filosofo Esposito
Silverthorne, United States

Silverthorne, United States - Nathan Anderson / Unsplash

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Pubblichiamo le pagine conclusive del filosofo Costantino Esposito al nuovo numero della rivista “Studium Ricerca-Filosofia” da lui curato e intitolato “Il nichilismo contemporaneo. Eredità, trasformazioni, problemi aperti”.

L’approccio interpretativo che ha innescato questa raccolta di studi non mira semplicemente a “spiegare” il fenomeno nichilistico nelle sue cause e nelle sue conseguenze, ma a porre nuovamente il problema che è il nichilismo, considerando cioè le questioni che esso pone, le crisi da cui nasce o che esso stesso produce, le domande antiche e nuove che esso continua a porci. Insomma abbiamo cercato di riaprire – con la dovuta attenzione dell’analista, insieme alla partecipazione in prima persona dell’interprete – gli interrogativi, molto più che le soluzioni nichiliste che attraversano da cima a fondo la condizione umana del nostro tempo. Con il rischioso invito di considerarci tutti in certo modo partecipi di questo fenomeno, anche coloro che dottrinalmente o moralmente sono dei convinti anti-nichilisti. E questo non certo per enfatizzare o estendere in maniera sovradeterminata questa posizione culturale (il che sarebbe un’inutile forzatura), ma piuttosto per rintracciare la problematica nichilista come dall’interno della stessa esperienza, riaprendo domande costitutive dell’esistenza umana nel mondo e nella storia. [...] Ora che la crisi del senso si è “normalizzata”, ora che da patologica tale crisi si tramuta sempre più in fisiologica, cosa resta di “nuovo” in questo scenario? [...] Verrebbe da dire che resta tutto, anzi sempre di più, in un accumulo di dati e di informazioni che crescono su se stesse in progressione geometrica. Ogni volta che un “utente” acquisisce e utilizza informazioni, non solo le incrementa con i suoi dati personali ma con la sua stessa libertà di scelta. Anche la libertà viene afferrata e controllata nel web del mondo. Questa rete, meravigliosa come concetto, oltre che strabiliante come performance, è qualcosa di cui non si può che essere grati, ma che porta con sé un problema il più delle volte inavvertito: essa si struttura e si propone appunto come “tutto”, come un vero e proprio “sistema” onnicomprensivo. Questa è la sua aporia nichilista. Esso sembra voler rifare l’unità del mondo, interconnettere tutte le cose, e le cose con le persone, e le persone tra loro, in un nesso che non si rompe mai, non si smaglia mai. Questa interconnessione universale va riconosciuta nel suo carattere squisitamente ontologico: il senso è solo una funzione di collegamento, non è nulla di reale, ma solo una combinazione di possibilità; esso ha il carattere di un anello di collegamento o di una maglia di connessione (link) e possiede un essere sostanzialmente virtuale. Non che si neghino le cose reali, presenti, materiali – al contrario, esistono solo queste cose, ma non esiste il loro senso, o meglio esso è solo una costruzione modulare della nostra mente.

E dunque, tornando al nostro interrogativo, cosa resta da domandare? Tutto è già potenzialmente programmabile? O ci sono dei punti di resistenza che sfuggono alla totalità virtuale del mondo? Qui è apparsa la scoperta più interessante – e inaspettata, viste le premesse – nel nichilismo del nostro tempo. Non al di là di esso, ma dentro di esso. La novità è l’accorgersi di un fatto strano, all’apparenza residuale, ma in realtà originario: il desiderio di conoscere il motivo per cui ciascuno di noi è al mondo, attesta in maniera evidente, anche se non del tutto spiegabile o comprensibile, la presenza di un senso irriducibile. Se fosse infatti riducibile – o solo producibile da noi – non emergerebbe come problema, ma sarebbe già risolto, e cioè ridotto nel suo stesso essere un “problema”. Il fatto è che il senso non è riducibile a risposte parziali, proprio per il fatto che è il nostro stesso “io” ad essere irto riducibile al mondo intero. Momento di discontinuità, di interruzione, di trascendenza, in cui il senso emerge alla coscienza. Alcuni di questi punti di resistenza nell’esperienza di sé sono riemersi sotto forma di problemi aperti – dunque irriducibili – nei saggi di questo volume, in maniera diretta o indiretta. Provo a individuarne cinque, e a riformulare tali problemi, cercando di intendere più precisamente di quali risposte abbiamo bisogno per essere all’altezza di quelle domande.

Il primo punto irriducibile è senza dubbio la nostra stessa capacità di percepire la realtà come un “dato”. Sembrerebbe un fatto ovvio, puramente funzionale, non particolarmente problematico. Ma già a livello della spiegazione scientifica dei processi neurali che si accompagnano a questi atti percettivi il problema è tutt’altro che risolto. Le indagini delle neuroscienze costituiscono una fonte di grande interesse e anche di grande stupore rispetto al nesso che si realizza di volta in volta, a livello biologico e cerebrale, tra il nostro io e il mondo. Ma appunto lo stupore nasce proprio dalla complessità nascosta dietro un atto “semplicissimo” della nostra mente e del nostro sensorio corporeo, che risulta così normale, quotidiano, quasi meccanico. Ma che meccanico non è. Nel percepire le cose, nel percepire il mondo che ci viene incontro, che ci è offerto, che ci è dato, noi siamo certamente “passivi”, cioè riceviamo qualcosa; ma nell’essere colpiti o affetti si mette in moto la nostra attività di risposta, grazie alla quale l’oggetto diventa esperienza, diventa “nostro”, diventa “noi”. Si tratta certo di un rapporto di azione/reazione, ma all’interno di esso si apre la via più stupefacente (sebbene la meno appariscente, la più “normale”) per raggiungere ogni volta la coscienza del ricettore e del re-attore come un “io”. La capacità di percepire il dato della realtà coincide con la stessa possibilità di pervenire a sé stessi in quanto provocati dall’essere. Chiamati a essere fin nella propria carne. A partire di qui l’urto, il contatto, il dato si caricano di un significato possibile per me. La natura diventa storia, esperienza, “coscienza”. Il secondo punto rilevante, anch’esso trasversale in maniera esplicita ma spesso implicita, consiste nella nostra “facoltà di desiderare”: mancanza che rinvia, o meglio che costituisce la traccia irriducibile della presenza di ciò che ci manca. Come una mancanza che attrae ed eccita il nostro io. Il desiderio è per così dire la realizzazione di sé in quanto mancante, ma di una mancanza che non potrà mai essere rubricata tra i casi di “bisogno” o di “necessità”, per il semplice motivo che ogni soddisfazione determinata che viene procurata alle nostre urgenze non riesce mai a venire a capo dell’inesauribilità del desiderio. Non può mai annullarlo. Esso è, per sua stessa costituzione, niente di meno che desiderio “di essere”, di esserci. Prima o anche oltre ogni decisione della volontà o ansia da prestazione o patologia dell’insoddisfazione, il desiderio attesta che l’esperienza degli esseri umani è “fatta” di un altro, e mostra una possibile via per riconoscere che siamo fatti permanentemente da un altro. In altri termini il desiderio è quell’esperienza massimamente condivisa dagli umani che fornisce un significato “positivo” a un termine altrimenti definibile solo negativamente, quale è infinito. Il desiderio per sua natura è inquietudine infinita, inarrestabile, se non al prezzo di negare una qualsiasi consistenza all’io. Perciò il desiderio infinito non significa soltanto che esso è continuamente ricorrente e sempre rinasce dopo ogni soddisfazione parziale o temporanea, ma può significare anche che esso è – consapevolmente o meno – un desiderio dell’infinito. Solo con il lessico del desiderio, non con quello dei soli concetti o delle sole emozioni, la parola “infinito” può essere detta sensatamente e ragionevolmente a partire dall’esperienza.

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