lunedì 5 giugno 2023
Più che scriverne una biografia, Aldo Mola ha puntato sugli errori fatali che segnarono il suo regno. Primo fra tutti l’ingresso nel primo conflitto mondiale
Vittorio Emanuele III di Savoia, re d'Italia, fotografato da Mario Nunes Vais nel 1918

Vittorio Emanuele III di Savoia, re d'Italia, fotografato da Mario Nunes Vais nel 1918 - WikiCommons

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Domani, 7 giugno, alle ore 16 all’Archivio Storico della Presidenza della Repubblica lo storico Aldo Mola discuterà con alcuni studiosi ciò che emerge dalla sua ultima fatica storica, ovvero Vita di Vittorio Emanuele III. 1869-1947. Il re discusso (Bompiani, pagine 582, euro 22,00), studio da cui emergono gli errori fatali commessi dal penultimo sovrano italiano. Intervengono Tullio Del Sette, Aldo Giovanni Ricci, Tito Lucrezio Rizzo, Luciano Zani e Gianpaolo Romanato, che qui riassume i contenuti del libro.

Nel 2017 la salma di Vittorio Emanuele III è tornata in Italia e riposa, accanto alla moglie, Elena di Montenegro, nel santuario di Vicoforte, in provincia di Cuneo. Dopo l’abdicazione avvenuta il 9 maggio 1946 a favore del figlio, che divenne Umberto II, Vittorio Emanuele era andato in volontario esilio in Egitto, dove era morto alla fine dell’anno successivo. Il rimpatrio del feretro fu possibile grazie all’interessamento del presidente della Repubblica, su richiesta di vari personaggi legati alla casa sabauda. Fra questi lo storico Aldo Mola, che ora ne pubblica un corposo ritratto: Vita di Vittorio Emanuele III 1869-1947. Il re discusso (Bompiani-Giunti). Il libro è in realtà un compendio della storia italiana nei quarantasei anni del suo regno - iniziato nel 1900 dopo l’assassinio a Monza del padre Umberto I - più che una compiuta biografia, per costruire la quale mancano le indispensabili fonti private, lettere, diari, memorie. E il compendio, senza tacere il contorno complessivo, si concentra sui momenti topici del periodo di Vittorio Emanuele, quelli che lo resero “discusso”, come recita il titolo, e gli suggerirono l’abdicazione e l’allontanamento dal suolo italiano, nel vano tentativo di salvare le sorti della monarchia: l’ingresso dell’Italia nella Prima guerra mondiale, la consegna del governo a Mussolini nel 1922, la resa senza condizioni firmata con l’armistizio dell’8 settembre e la successiva “fuga” a Brindisi, il varo delle leggi razziali nel 1938. Colpevole o innocente? Mola evita saggiamente l’alternativa, preferendo narrare i fatti piuttosto che giudicarli. Ma il lettore è tentato inevitabilmente di trarre delle conclusioni, anche perché la storiografia non è stata tenera con questo sovrano che anche la natura aveva maltrattato, relegando “Sua altezza” in un fisico che superava di poco il metro e mezzo. In una trasmissione radiofonica del 26 luglio ’43 gli inglesi giunsero a definirlo “piccolo re idiota”.

In realtà, come spiega Mola, Vittorio Emanuele era uomo di solida cultura, con una memoria che oggi definiremmo degna di un computer ed esercitò le sue funzioni rimanendo sempre all’interno dei confini che gli assegnava lo Statuto albertino. Sempre, tranne in un caso, che determinò tutti gli eventi successivi: la scelta di entrare in guerra nel 1915. Senza quella scelta, largamente dovuta al re, la storia italiana sarebbe stata ben diversa. Ricordiamo i fatti. L’Italia era vincolata dal 1882 all’alleanza con gli Imperi tedesco e austro-ungarico (la Triplice), periodicamente rinnovata. Senza mai rompere quel vincolo, aveva condotto in realtà una politica estera molto autonoma e disinvolta, stipulando accordi con le tre potenze avversarie della Triplice, che poi si uniranno nell’Intesa: Gran Bretagna, Francia e Russia. Accordo dopo accordo, senza mai rinnegare il vincolo che ci legava a tedeschi e austro-ungarici, ci creammo in Europa la fama di paese infido, che giocava su troppi tavoli e non sapeva dove collocarsi perché ambiva ad un ruolo superiore alle sue possibilità.

Quando scoppiò la guerra, nel 1914, scegliemmo di non entrarvi, facendo appello, legittimamente, al fatto che la Triplice era difensiva e non offensiva. Ma contemporaneamente cercammo di contrattare la neutralità per ottenere compensi e ingrandimenti territoriali, irritando sempre più gli austriaci. Trovando porte sbarrate a Vienna, aprimmo trattative con l’Intesa, che si conclusero con la stipula del cosiddetto “patto di Londra” (26 aprile 1915), che ci prometteva cospicui ingrandimenti territoriali (Venezia Giulia, Istria, parte della Dalmazia, Sud Tirolo) e ci vincolava ad entrare in guerra entro un mese a fianco di Inghilterra, Francia e Russia contro l’Austria-Ungheria. I contenuti e gli obblighi di quel patto, come ricorda opportunamente Mola, erano noti solo a tre persone: il re, Salandra, presidente del Consiglio e Sonnino, ministro degli Esteri. Per renderlo operativo essi avevano bisogno del consenso del Parlamento. Ma il Parlamento ignorava gli impegni assunti dal governo ed era a grande maggioranza per la neutralità, come lo era Giolitti, che controllava più di metà degli eletti. Come piegarli? Facendo ricorso alla piazza. Le imponenti manifestazioni popolari a favore dell’intervento, promosse dai nazionalisti e incoraggiate dal governo, cui si aggiunsero esplicite minacce di morte ai deputati, incluso Giolitti, misero la Camera con le spalle al muro e indussero lo stesso Giolitti, quando si rese conto che il re si sentiva vincolato dagli accordi con l’Intesa, qualunque essi fossero, a non provocare una crisi istituzionale, portando la sua opposizione fino al voto parlamentare.

Fu così che il 3 maggio uscimmo dalla Triplice, ma con l’incredibile corollario che tra il 26 aprile e il 3 maggio ci trovammo ad essere alleati, a guerra in corso, di entrambi i fronti in lotta. Il 21 maggio furono votati dalla Camera, sempre all’oscuro dei contenuti del “patto di Londra”, i pieni poteri al governo e il 24 maggio l’Italia li utilizzò per dichiarare la guerra all’Impero austro-ungarico. Solo l’anno seguente seguì la dichiarazione di guerra alla Germania. Aldo Mola ricostruisce ora per ora quelle giornate decisive e scrive che «a favore dei pieni poteri votò il 45% dei 508 deputati in carica. Fu dunque una minoranza ad avallare l’intervento in guerra; una minoranza ignara dei vincoli assunti dal governo, delle condizioni effettive delle forze armate, della possibile vastità della prova alla quale il Paese veniva chiamato». In quel mese di maggio, definito poi “radioso”, si era consumato un autentico “colpo di stato”. Lo Statuto albertino prevedeva infatti (articolo 5) che i trattati internazionali che comportassero «variazioni del territorio nazionale» non potessero avere valore se non con l’approvazione parlamentare. Era esattamente il caso del patto sottoscritto a Londra, i cui contenuti, invece, furono sempre ignorati dal Parlamento. Se ne conosceranno i termini soltanto nel 1917, dopo lo scoppio della rivoluzione bolscevica in Russia. La forzatura dello Statuto da parte della corona e del governo fu dunque indiscutibile. Cominciò allora, conclude Mola, «il crepuscolo della monarchia rappresentativa». Quando Mussolini nel 1922 definirà la Camera «aula sorda e grigia», nel suo primo discorso da presidente del Consiglio, certamente ricordava quel triste precedente.

Dopo la guerra - quando tornò alla presidenza del consiglio nel 1920-21 con il suo quinto e ultimo governo - Giolitti propose per due volte un disegno di legge volto a modificare il quinto articolo dello Statuto, togliendo al re il potere di dichiarare la guerra e trasferendolo a un voto parlamentare vincolante. Allora nessuna delle forze politiche che avevano la maggioranza, popolari e socialisti, si rese conto che quella riforma avrebbe cambiato la storia italiana. Prevalsero rancori, rifiuti aprioristici, antiche diffidenze nei confronti del vecchio ma sempre lucido presidente, e la proposta giolittiana decadde con il suo gabinetto, senza arrivare al traguardo dell’approvazione parlamentare. Forse quella modifica costituzionale avrebbe reso meno facile e scontata, il 10 giugno 1940, la tragica decisione di Mussolini di portare nuovamente l’Italia in guerra. E, forse (forse), anche il destino della monarchia, privata di un potere di cui aveva indiscutibilmente abusato, sarebbe stato diverso.

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