sabato 2 dicembre 2023
Un libro di Bettini punta il dito su quegli ambienti neo-moralisti per i quali i classici greci e romani non dovrebbero essere più studiati in quanto promuoverebbero un sistema di relazioni escludente
Pietroda Cortona, “Rattodelle Sabine” (1629-1630 circa). Roma, Musei capitolini

Pietroda Cortona, “Rattodelle Sabine” (1629-1630 circa). Roma, Musei capitolini - WikiCommons

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Lo spot dell’Esselunga sulla bambina che ha il sogno di riunire papà e mamma separati, al di là del can-can che ha diviso per alcuni giorni l’opinione pubblica italiana, ha rivelato una semplice incontestabile verità: la sofferenza dei figli per la separazione dei genitori. Senza criminalizzare nessuno o nessuna, ha avuto il merito di porre una questione andando oltre il politicamente corretto, contrariamente a quanto ha commentato il cantautore Roberto Vecchioni, secondo il quale una pubblicità controcorrente avrebbe dovuto mettere in scena due mamme che si sono divise.

Ma oggi è vero esattamente l’opposto: una famiglia composta da un padre e una madre con i figli, magari che decide di stare unita tutta la vita e mette al mondo due o più bambini, rappresenta un modello rivoluzionario. Questo preambolo ci è sembrato necessario per tornare sul tema della cancel culture, versione ultramoderna del politically correct, a cui sono stati dedicati ultimamente alcuni saggi usciti in Italia rilevanti a giudizio di chi scrive, come La correzione del mondo di Davide Piacenza (Einaudi) e Capitalismo woke di Carl Rhodes (Fazi). A cui si aggiunge il recentissimo Chi ha paura dei Greci e dei Romani? di Maurizio Bettini (Einaudi, pagine 172, euro 12).​

Come ben spiega Bettini, che è direttore del Centro antropologia e mondo antico dell’Università di Siena, uno dei volti più preoccupanti della cosiddetta cultura della cancellazione riguarda proprio i classici ed è quel fenomeno chiamato decolonizing classics scoppiato soprattutto nelle università americane. Al di là di alcuni episodi sgradevoli e spesso ridicoli che hanno riguardato i grandi autori dell’Antichità, da Omero a Ovidio, e che molti docenti e studenti hanno chiesto di non studiare più, o quantomeno di censurare in quei passi ritenuti offensivi per la sensibilità odierna, il caso va esaminato nella sua complessità. Ed è quanto fa esemplarmente in questo volume Bettini, che non si limita a deplorare l’interruzione del dialogo fra noi e il passato, sostenuta da alcuni in base all’idea che «classics è un mito di fondazione euroamericano», ma vuole prendere sul serio la sfida.

Vengono elencate le motivazioni e le richieste che stanno alla base delle proteste: lo spirito di fondo che anima questo settore di studi sarebbe permeato dal colonialismo di stampo europeo; lo studio delle culture greca e romana andrebbe affiancato a quello degli altri popoli a esse coevi, asiatici e africani; l’espressione “eredità classica”, che si riferisce al nucleo fondante della civiltà occidentale, deve perciò lasciare spazio alle altre eredità culturali oscurate dal colonialismo; gli studi classici non devono più essere riservati, sia nell’insegnamento che nella componente studentesca, quasi solo ai maschi bianchi occidentali come accade oggi; infine, va riscritto completamente il canone degli autori classici, ora legato a categorie come imperialismo, razzismo, sessismo.

«Di fronte a prese di posizione così radicali – commenta però l’autore -, che negano al presente ogni possibilità di dialogo col mondo classico e le sue opere, vengono in mente le parole di Borges: “Un classico è un libro letto con rispetto”». E se la prende doverosamente con questo trend che fa sì che «da incunabolo della civiltà occidentale, o addirittura della civiltà in genere, il mondo dei Greci e dei Romani è divenuto paradigma di ingiustizia e discriminazione», tanto che a farne le spese è anche la conoscenza delle lingue classiche. Se nei secoli scorsi erano adorate negli States e studiate nelle università, oggi sono assai penalizzate.

L’errore che si compie è quello di «far passare l’immenso fiume della storia attraverso il colino stretto della moralità» e, ci sia permesso di aggiungere, di non collocare autori e opere nel loro contesto storico. Un’operazione verità che lascia tutto il tempo che trova e che conduce a posizioni di censura in base a un moralismo inaccettabile. Detto questo, Bettini non chiude le porte al dialogo, anzi, e cerca nel suo complesso e articolato ragionamento di venire incontro alla richiesta «di minoranze ormai non più tanto tali di vedersi riconosciuta la loro cultura», nella consapevolezza delle differenze enormi fra la cultura antica e la nostra.

Schiavitù, emarginazione femminile, sopraffazione degli altri popoli fino all’annientamento, pratica costante dell’impero romano, sono alcune caratteristiche proprie del mondo antico che non si possono negare. Ma proprio per questo, «la relazione che ci lega al mondo classico non può che essere contemporaneamente di alterità (per le differenze, anche macroscopiche, che da essa ci separano) e di identità (per i numerosi modelli di pensiero, di visione del mondo, di linguaggio che da essi abbiamo derivato)».

In fin dei conti, come dice ancora Bettini, «la vera decolonizzazione dei classici consiste in primo luogo nel liberarli da noi, dalla loro forzata assimilazione alla nostra cultura. Se vogliamo coinvolgere anche i classici nella battaglia contro le discriminazioni, presenti e future, non dobbiamo limitarci a una condanna morale della loro cultura ma, al contrario, possiamo utilizzarli come strumento di comparazione utile a interpretare i presupposti di questi atteggiamenti oggi inaccettabili».

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