lunedì 7 gennaio 2019
Al nuovo M9 di Mestre una grande mostra ripercorre il nostro ’900 attraverso gli sguardi e le storie di 24 autori: da Scianna a Mulas, da Cerati a Battaglia, e poi Chiaramonte, Vitali e tanti altri
Nino Migliori, "Il tuffatore", 1951 © Fondazione Nino Migliori

Nino Migliori, "Il tuffatore", 1951 © Fondazione Nino Migliori

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La fotografia italiana come “etichetta” non esiste, diversamente da quella francese o americana. Non c’è una scuola e uno stile univoci e identitari. Ci sono sfumature, percorsi e campi di indagine diversi. Al debutto della fotografia, come strumento artistico, di rappresentazione e di racconto della realtà, l’Italia restò in qualche modo a guardare, anzi a farsi guardare, come un paese in vetrina che esponeva la sua grande bellezza. Perché fotografare? Se escludiamo gli Alinari di Firenze e i Villani di Bologna, la fotografia dei primi scatti, in Italia, sarebbe praticamente anonima. Una lacuna che non è forse mai stata colmata, ma che in qualche modo è diventata un punto di forza. Perché ha permesso a più generazioni di fotografi di crescere e di sviluppare un racconto personale e inedito. Ci sono storie, strade e territori del nostro Paese che conosciamo solo grazie al racconto dei fotografi d’autore, di fotoreporter appassionati, di camminatori instancabili che con le reflex al collo l’Italia l’hanno girata palmo a palmo. Così nel tempo la fotografia italiana è diventata quella dei suoi autori, capaci di cogliere in maniera diversa e unica i molteplici aspetti del nostro Novecento.

Mario De Biasi, 'Donne sulla strada tra Amantea e Scalea (Cosenza)', Calabria 1957 © Mario De Biasi per Mondadori Portfolio

Mario De Biasi, "Donne sulla strada tra Amantea e Scalea (Cosenza)", Calabria 1957 © Mario De Biasi per Mondadori Portfolio - Mondadori Collection

Il secolo che per lo scrittore britannico Hobsbawm era il «secolo breve», per qualcun’altro di «rottura», sicuramente l’età dei consumi e del progresso, per l’Italia è stato il secolo dei cambiamenti radicali, sul fronte democratico, dopo la parentesi fascista, e dello slancio economico, dopo le terribili pagine dei conflitti. C’era un Paese da ricostruire e da «fare». Dire «fotografia italiana» – come osservava acutamente molti anni fa Arturo Carlo Quintavalle – è come «porre un interrogativo»: «È un problema storico – quello della fotografia italiana nel nostro paese e dubito che sia possibile semplicemente parlare di “fotografia italiana”. L’esistenza di una fotografia italiana fu semmai più che un punto di partenza, un obiettivo politico, un bisogno insoddisfatto, una invocazione. Ai fotografi, molto precocemente, giunse pressante una richiesta di spirito cavouriano: farsi carico di colmare una lacuna identitaria. Dopo che i grandi manovratori politici avevano fatto l’Italia, occorreva “far conoscere coll’immagine l’Italia agli italiani”» – annota Michele Smargiassi in un documentato saggio nel catalogo (Marsilio) che accompagna l’interessante mostra L’Italia dei fotografi. 24 storie d’autore – a cura di Denis Curti – che il neonato M9-Museo del ’900 di Venezia Mestre propone fino al 16 giugno come prima esposizione temporanea al terzo piano dell’innovativa struttura di via Pascoli. Una importante e inusuale occasione per riguardare il secolo che ci siamo lasciati alle spalle. E farlo in questo suggestivo percorso realizzato dalla Casa dei Tre Oci e da Civita Tre Venezie con gli occhi diversamente illuminanti di 24 fotografi italiani. Ciascuno con un portato visivo che ha aperto gli occhi a generazioni di italiani e di stranieri sull’Italia.

In un tempo fortemente segnato dalla carta stampata lo scatto fotografico era l’immagine del Paese. Gli italiani si “facevano” attraverso i reportage che raccontavano i cambiamenti da realtà agricola a industriale, gli spostamenti dalla campagna alla città, l’emigrazione dal Sud al Nord, il lavoro in fabbrica, come si viveva, i problemi, le risorse, le meraviglie ma anche i drammi della penisola. Ci sono pezzi di storia e narrazioni di storie che tutti ricordiamo per foto che scorrevano fra le pagine dell’Europeo, del Mondo, di Epoca. O su libri e cataloghi che oggi rappresentano un patrimonio culturale e storico imprescindibile per la conoscenza di chi siamo.Persone, città, costumi, paesaggi. Gianni Berengo Gardin e Carla Cerati, con Morire di classe, hanno aperto per esempio una finestra sul terribile mondo degli ospedali psichiatrici; Letizia Battaglia ha raccontato la mafia e l’antimafia a Palermo; Lisetta Carmi è entrata nel delicato e difficile mondo dei travestiti a Genova; Ferdinando Scianna, ha posto il tema della religiosità popolare e delle contraddizioni delle tradizioni siciliane. Con Mario De Biasi si sono “scoperte” le genti dell’Italia degli Anni Cinquanta, fra Sicilia, Sardegna e Calabria, mentre Nino Migliori si è soffermato su quelle dell’Emilia. Nel viaggio fotografico di M9 ci sono quindi i Ritratti reali a Tricarico di Mario Cresci o i seminaristi di Senigallia colti da Mario Giacomelli. E se Riccardo Moncalvo ci ha offerto un affresco delle vacanze degli italiani fra il 1937 e gli anni Cinquanta, Arturo Ghergo ha puntato l’obiettivo sui divi che facevano sognare il Paese; Tazio Secchiaroli è diventato l’ispiratore e il narratore dell’universo felliniano, quello della Dolce Vita, mentre Ugo Mulas ha fissato in immagine la creatività e la magia che si respirava al Bar Jamaica di Brera, a Milano. E poi c’è il paesaggio: dalle Vedute di Napoli di Mimmo Jodice, alle visioni di colore di Franco Fontana, dalle rappresentazioni di Giovanni Chiaramonte e di Luigi Ghirri alle cartoline di Fulvio Roiter, dalle istantanee di Maurizio Galimberti alle fabbriche e immagini industriali di Gabriele Basilico. E ancora i progetti e le visioni di Francesco Jodice, Luca Campigotto e Olivo Barbieri, per chiudere con le grandi immagini di Massimo Vitali: la massa, dalle spiagge di Rosignano alle discoteche.

Tante finestre sul Novecento: 230 foto per raccontare l’Italia e gli italiani. Lo sguardo di 24 fotografi. Avrebbero potuto essere anche di più, perché tanti altri nomi hanno “fatto” la storia, ma alla fine Curti ha dovuto fare una scelta, realizzando una importante operazione culturale che lascerà il segno nel racconto fotografico. Ad ampliare la visuale, in mostra, ci sono anche dei video e un centinaio di libri che fra monografie e saggi permettono di scoprire altri autori e ulteriori aspetti della “fotografia italiana”. «Viste tutte insieme, queste fotografie disegnano una trasversalità che contribuisce a comprendere il futuro – scrive Curti nell’introduzione al catalogo, impreziosito da una meravigliosa copertina ad opera di Guido Scarabottolo –. Nessuna predizione. All’interno di questa trasversalità non ci sono solo informazioni, c’è soprattutto l’invito a guardare il mondo da prospettive diverse. È spesso presente una ribalta che, fra ombre e luci, ci suggerisce che cosa ha generato il cambiamento, perché la fotografia è sicuramente un linguaggio ambiguo ma è anche un concentratore di relazioni e un distributore di dubbi. In questo senso, i fotografi presenti in questa rassegna, forse, non sono mai stati moderni. Casomai sempre avanti, anticipatori di un tempo a venire, narratori pertinenti, costruttori di perimetri emotivi, in grado di intendere la memoria come un pregiudizio. Alla fine, il filo rosso di tutte queste storie è racchiuso nella precisa volontà di rinunciare a dire più di ciò che la realtà stessa conserva – conclude il curatore –. È la consapevolezza di chi sa bene che se una cosa non è fotografata, questa non esiste. Perché il mondo, visto da vicino, appare sempre nuovo e diverso». E se non c’è una fotografia italiana come scuola, ci sono grandi autori che hanno fatto gli italiani.

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