venerdì 20 ottobre 2017
A Lodi 34 esposizioni raccontano la storia, i drammi, le speranze del mondo di oggi con uno sguardo etico
Uomo siriano fermato in Grecia: foto di Alessio Cupelli

Uomo siriano fermato in Grecia: foto di Alessio Cupelli

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«Destino final» è un’espressione in lingua spagnola usata dai piloti nei voli di linea per indicare il luogo di arrivo di un aereo. Destino final è il titolo della mostra che racconta un’inchiesta iniziata nel 2003 sugli eventi e le conseguenze della dittatura militare argentina e sui “voli della morte”. Un viaggio nel tempo e nella storia che unisce fotografia e indagine e che ha portato il fotografo Giancarlo Ceraudo, insieme alla giornalista investigativa Miriam Lewin, exdesaparecida, al ritrovamento di cinque aerei – nelle città argentine di Buenos Aires e Bahia Blanca, e in Lussemburgo, Inghilterra e negli Stati Uniti – e dei piani di volo usati dalla giunta militare argentina, dal 1976 fino al 1983, per eliminare gli oppositori al regime: «Per circa 5.000 persone “Destino final” ha assunto un significato atroce: drogate, prive di sensi, caricate su aerei militari, tristemente noti come i “voli della morte”, venivano gettate, ancora vive, nell’Oceano Atlantico, la loro destinazione finale. Solo alcuni dei loro corpi sono stati recuperati. Le famiglie dei desaparecidos stanno ancora cercando i resti e attendono giustizia».

In realtà i documenti scovati dai due reporter hanno rappresentato una preziosa prova d’accusa consegnata alla magistratura argentina: parte delle indagini si sono concentrate su un gruppo di familiari dei desaparecidos – incluse le fondatrici delle Madri di Plaza de Mayo e due suore francesi – che furono rapiti dopo un incontro nella chiesa della Santa Cruz a Buenos Aires e gettati vivi dagli aerei. Il 12 aprile 2011 un procuratore della corte di Buenos Aires ha chiesto l’arresto di Enrique José De Saint Georges, Mario Daniel Arru e Alejandro Domingo D’Agostino, tre dei piloti presumibilmente coinvolti nel “volo della morte” operato dallo Skyvan PA51 la notte del 14 dicembre 1977. Dal novembre 2012, i tre piloti sono in attesa di giudizio. La sentenza è prevista entro la fine dell’anno. Destino final è uno dei racconti più forti del Festival della Fotografia etica di Lodi, una kermesse nata da un’idea del Gruppo Progetto Immagine e in particolare di Alberto Prina e Aldo Mendichi, giunta all’ottava edizione, che per quattro weekend (questo è il terzo, si chiude il 28-29 ottobre, www.festivaldellafotografiaetica. it) punta l’obiettivo sul “senso” del fotografare: 34 mostre e 20 autori da tutto il mondo i cui scatti mettono al centro la vita e la dignità dell’uomo, i drammi, la solidarietà, il cuore. Con uno sguardo che fa la differenza.

Quest’anno i book arrivati per il World Report Award che accompagna il festival sono stati quasi ottocento. I vincitori sono: per la sezione “Master”, Daniel Berehulak con il reportage They’re Slaughtering Us Like Animals, potentissimo portfolio realizzato nelle Filippine del presidente Duterte e la sua lotta spietata contro il traffico di droga; per la sezione “Spotlight”, Giorgio Bianchi e la sua Donbass Story - Spartaco and Liza, tra Italia e Ucraina; per la sezione “Short”, Emanuele Satolli con The Battle For Mosul; per “European”, il francese Romain Lau- rendeau con Derby, in Algeria dove una partita di calcio assume una dimensione esistenziale incommensurabile; infine per “Single shot” la “ Solidarietà fertile” di Alberto Campi, Peter Bauza e Alessandro Rota. Non ci sono “star” della fotografia, ma tanti giovani fotografi che fanno della fotografia impegnata una scelta di campo. Così a Lodi la fotografia incrocia i “destini finali” di molti popoli. Fotografa i drammi, sì, ma anche le speranze. L’umanità del mondo. C’è il racconto in prima persona di Karim El Maktafi, nato nel nostro Paese da genitori marocchini, che in Hayati (la mia vita, in arabo), realizza con un semplice smartphone un diario visivo in cui si interroga e riflette sulla propria duplice identità di italiano e immigrato di seconda generazione.

Ci sono poi le “cicatrici”, Nadab, di Alessio Cupelli, in un lavoro realizzato con l’Ong Intersos per raccontare la diaspora dei migranti lungo la rotta balcanica; la tragedia umanitaria in Sud Sudan negli scatti di Fabio Bucciarelli; le «cose che devono essere semplicemente viste» del collettivo Noor o le “memorie sospese” di Ylenia Bruzzese. Emanuele Satolli scatto dopo scatto narra in presa diretta la battaglia di Mosul, l’ex “capitale” irachena del Daesh, liberata dall’esercito nei mesi scorsi. Il fotografo italiano è riuscito a penetrare più volte dentro la roccaforte dello Stato islamico e come reporter embedded tra le truppe irachene, ha fotografato la liberazione della città, con i civili ancora terrorizzati e con un futuro ancora tutto da scrivere. «Dal 16 ottobre 2016, quando il Primo ministro iracheno Haider al-Abadi ha dato il via alle operazioni militari per riconquistare la città di Mosul sotto il controllo del Daesh dal giugno 2014, migliaia di civili sono stati costretti a fuggire dalle loro case per trovare riparo nei campi profughi – ricorda Satolli –. Molti altri sono rimasti intrappolati in città dove i combattenti del Daesh attaccavano in maniera indiscriminata, con colpi di mortaio ed esplosivi, sparando deliberatamente sui residenti in fuga. Militanti che usavano le persone come scudi umani e li imprigionano nelle loro case, mentre incursioni aeree da parte della coalizione capeggiata dagli Stati Uniti distruggevano intere abitazioni». Un lavoro pubblicato dal Time e scelto dal gruppo Grin dei photoeditor italiani per l’edizione di quest’anno del Premio Ponchielli e che nei prossimi mesi sarà in mostra a Milano, in maniera più completa, al Forma di via Meravigli.

Le foto di Satolli e di tanti altri fotografi qui a Lodi sono una risposta alla “crisi” del fotogiornalismo: «Di fronte a una sovrapproduzione di immagini che tende a banalizzare il valore della fotografia, la sfida è di riuscire a rendere il proprio lavoro unico, anche quando nello stesso posto ci sono più fotografi o tante persone con un telefonino – dice Satolli –. Penso che ci sia sempre spazio per chi crede nel dovere e nella forza del racconto, per chi dà “voce” alla storia che si compie davanti ai nostri occhi. Con il giusto distacco, ma senza cadere al puro cinismo. La freddezza, senza perdere la tenerezza». Rispetto all’effimero delle milioni di foto che si aggiungono ogni giorno sul web, ecco una fotografia – è proprio lo “slogan” del festival – che «parla alle coscienze». E le scuote.

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