mercoledì 9 giugno 2010
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Se la storia non procede come un percorso perfettamente lineare, di tanto in tanto vi sono personaggi che le fanno compiere colpi d’ala e tornanti fondamentali. Nel rapporto tra Chiesa cattolica e popolo ebraico colui che ha rivestito «un’importanza storica» - parola di Benjamin Mazar, dal 1953 al ’61 presidente dell’Università ebraica di Gerusalemme - è stato Jules Isaac (1877-1963), storico francese di origine ebrea. Che ad Auschwitz aveva perso la moglie, due suoi figli e un genero.Risale esattamente a 50 anni fa - era il 13 giugno 1960, un lunedì - l’udienza privata fra Giovanni XXIII e Isaac, a quel tempo presidente dell’Amicizia ebraico-cristiana di Francia, da lui fondata nel 1948. Un incontro di 20 minuti tra il pontefice che aveva annunciato un nuovo Concilio e uno tra gli storici più apprezzati Oltralpe, autore del manuale scolastico sulla storia più diffuso a Parigi e dintorni. Yves Chevalier, attuale direttore di "Sens", la rivista dell’Amicizia, definisce Isaac «pioniere del riavvicinamento tra ebrei e cristiani». Il perché è presto detto: nel 1948 aveva pubblicato Gesù e Israele (Marietti) in cui aveva fatto confluire lo scopo della sua ricerca iniziata nel 1941, quando - durante il regime di Pétain (aveva rifiutato di diventare il biografo ufficiale del maresciallo filo-nazista) - iniziò il saggio della sua vita: «Questo riavvicinamento di cui parlate [tra ebrei e Chiesa, ndr], voi sapete bene quanto lo auspichi, poiché proprio a questo anch’io lavoro. Ma la prima tappa mi sembra essere un esame di coscienza e la revisione delle antiche posizioni dottrinali rispettive, a base di collera e rancore». Così Isaac scriveva all’amico André Chouraqui, il grande studioso dei tre monoteismi, come riportato in Il destino di Israele, la corrispondenza di Chouraqui con alcuni grandi del Novecento (Jacques Ellul, Jacques Maritain, Marc Chagall e appunto Isaac), uscita lo scorso anno per le Edizioni Paoline. Proprio il filosofo di Umanesimo integrale era co-presidente dell’Amicizia nel 1960, anno del faccia a faccia tra Isaac e Roncalli. Un colloquio che nella corrispondenza tra Chouraqui e Isaac si può intravedere nella sua genesi e nei suoi risultati. «Ho potuto parlare alla televisione del cambiamento necessario nell’insegnamento cristiano, della speranza che mettiamo in Giovanni XXIII» scrive Isaac a Chouraqui il 7 giugno 1959. E meno di un anno dopo, il 21 aprile 1960, può fare quest’annuncio al «caro amico»: «Il progetto di viaggio a Roma sembra in via di realizzazione». Al che Chouraqui, più addentro di Isaac negli ambienti diplomatici, spianò la strada al ricercatore ebreo, interessando una serie di personalità transalpine a Roma affinché Isaac trovasse buona accoglienza in Vaticano.  L’incontro con Giovanni XXIII si svolge dunque dopo un lungo lavorio diplomatico. Significativo il finale di quel colloquio: «Posso avere dunque qualche speranza?» chiedeva Isaac. E Roncalli: «Voi avete diritto a qualcosa di più di una speranza». L’ospite franco-ebraico ricorderà Giovanni XXIII come un uomo «dallo sguardo chiaro, di un’evidente bontà che ispira fiducia». Isaac può annunciare il 10 ottobre seguente a Chouraqui: «Il papa ha davvero preso in considerazione la richiesta che gli ho presentato e che, mi si dice, considera di grande interesse. Per questo ha incaricato il cardinale Bea di prendere nel suo Segretariato per il Concilio la richiesta in questione e di farla esaminare». Ovvero, una rivisitazione critica dell’atteggiamento della Chiesa rispetto al popolo di Israele. Rivisitazione che sarà ufficializzata nella dichiarazione conciliare Nostra Aetate (1965), che ricorderà come l’antisemitismo fosse contrario al Vangelo e sottolineava l’elezione «senza pentimenti» del popolo di Israele da parte di Dio. Commenterà Chouraqui in un discorso a Aix en Provence nel 1963, in ricordo del «maestro» scomparso (Isaac muore il 5 settembre): «Nel giugno 1960, Jules Isaac non viene solo ricevuto e ascoltato dal capo della Chiesa e da diversi dirigenti della curia romana, ma ha la sensazione in quel momento di essere capito. Sa di aver appena forzato certi sbarramenti e di aver aperto una strada nuova, di aver cominciato di fatto una rivoluzione di portata mondiale». Ovvero, il riavvicinamento tra Chiesa e popolo ebraico dopo la tragedia della Shoah. È da ricordare che già nel 1949 Isaac aveva brevemente incontrato Pio XII. Da quell’evento, segnalò sempre Chouraqui, «incontestabilmente» Pacelli fu influenzato nell’ «emendamento della preghiera pro Iudaies» del venerdì santo. Resta curioso che lo stesso Isaac, ebreo, abbia ricevuto più attenzione, culturale e di relazione, dall’ambiente cristiano che da quello ebraico. Nessuna delle sue opere è stata tradotta in ebraico. Lui stesso, nel 1945, si lamenta con Chouraqui: «Purtroppo, se so a chi rivolgermi sul versante cristiano, non lo so su quello ebraico». In ambito cristiano i sodali di Isaac furono personaggi di grande statura: l’Amicizia nacque dalle frequentazioni a Parigi con padre Jean Marie Daniélou, futuro cardinale, e lo storico Henri Marrou; poté contare sull’appoggio del cardinale Achille Liénart, arcivescovo di Lille. Nel 1959 Isaac continuava a dolersi dello scarso interesse ebraico per il suo impegno interreligioso: «Finora, e sono quindici anni che ho intrapreso questa azione, non ho trovato appoggio solido negli ambienti ebraici».
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