giovedì 17 febbraio 2022
Nel suo capolavoro, ora tradotto, Jancar parla della sua Maribor, dove il romanzo si svolge ai tempi del dominio nazista: «Le ferite belliche sono aperte. Bisogna capire, non dimenticare»
Lo scrittore Drago Jancar

Lo scrittore Drago Jancar - -

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La guerra è capace di far emergere il cuore di tenebra dell’animo umano ma anche di suscitare coraggio e spirito di sacrificio. «L’assurdità della violenza può innescare il potere della compassione, della solidarietà e del perdono », ci spiega Drago Jancar, il più importante scrittore sloveno vivente, che ha indagato a fondo le dinamiche umane durante l’occupazione nazista nel romanzo considerato il suo capolavoro, E l’amore anche ha bisogno di riposo (La Nave di Teseo, traduzione di Darja Betocchi, pagine 390, euro 20,00). Il volume sarà presentato dopodomani a Udine presso la libreria Odos. Maribor, città natale di Jancar, è il piccolo palcoscenico che gli ha consentito di circoscrivere in uno spazio fisico una narrazione storica, documentata e non emotiva degli anni terribili che videro l’occupazione della Jugoslavia da parte delle forze tedesche. A Maribor viveva una consistente minoranza di lingua tedesca e per questo la città venne annessa al Terzo Reich e ribattezzata Marburg an der Drau. Coloro che fino al giorno prima erano vicini e amici vennero separati e messi gli uni contro gli altri. I tre protagonisti del romanzo sono Valentin, un partigiano che viene arrestato dai nazisti e accusato di cospirazione, la sua ragazza Sonja e l’ufficiale delle Ss Ludwig, un tempo chiamato Ludek. Sonja sa di esercitare un certo fascino su Ludwig e lo usa per ottenere la liberazione di Valentin, il quale sospetta che Sonja, per salvarlo, si sia concessa al nemico. Il rapporto tra i tre giovani fa emergere con grande forza narrativa tutti i temi cari a Jancar, quali la libertà di pensiero, la dissidenza politica e la ribellione al potere totalitario. Nel 1974, quando era un giovane studente universitario, venne anche lui accusato di diffusione di propaganda ostile dal regime jugoslavo e condannato a un anno di reclusione. Pagò il suo status di sovversivo anche in seguito, con continui maltrattamenti durante il servizio nell’esercito jugoslavo, e l’esperienza avrebbe profondamente segnato la sua prosa. Narratore raffinato, tradotto e premiato in tutto il mondo, Jancar ha affiancato al suo vasto opus narrativo anche l’attività di drammaturgo e saggista, impegnandosi a lungo per la democratizzazione del suo paese come presidente del Pen Club sloveno.

Perché ha scelto di ambientare questo libro e altre sue opere nella sua città natale, Maribor? Ritiene forse, un po’ come fece Joyce con Dublino, che il particolare nasconda dentro di sé l’universale?

Penso di sì. E credo che anche Claudio Magris la pensi allo stesso modo, altrimenti non avrebbe scritto un libro intitolato Microcosmi. I grandi eventi e i rapporti tra quelle persone che non scrivono la storia, le cui vicende non sono riportate nei libri di storia, si riflettono nel piccolo mondo di una vecchia città. Ma a differenza di Dublino, Maribor è anche una città di confine. Per molto tempo sloveni e tedeschi hanno vissuto insieme a Maribor e quella vita condivisa ha influenzato i loro destini. Nell’ultima guerra purtroppo anche in modo assai brutale.

Com’è nata l’ispirazione per questo libro? Da dove arrivano le storie di Valentin, di Sonja e di Ludek?

Come scrisse un critico: il contenuto di questo romanzo è immaginario, ma è più reale della realtà stessa. Ho conosciuto quelle persone e i loro destini, non esattamente quelli del romanzo ma altri. Quando ho iniziato a scrivere, mi sono confrontato con frammenti di realtà che si sono mescolati con la finzione.

Può essere propriamente definito un romanzo storico?

In realtà non credo che quelli che scrivo possano essere definiti romanzi storici. Anche quando sono ambientati nel XVII secolo, come il mio romanzo The Galley Slave, che parla dell’Inquisizione e della peste, quelle che cerco di raccontare sono questioni esistenziali. Ma dalla comparsa di questo disgraziato virus chiamato Covid, la storia della peste nel XVII secolo è un po’ anche la storia di oggi. Questo mio ultimo romanzo racconta in un certo senso la genesi delle nostre vite perché gli eventi dell’ultima guerra fanno parte di noi e le ferite di tante persone e di tante famiglie sono ancora aperte. Come pure il ricordo delle cose belle che accaddero in quel periodo terribile. Di coraggio, di compassione e sì, anche di amore. È giusto rievocare quei fatti. Soltanto così potremo evitare che si ripetano.

Perché la guerra è spesso capace di amplificare la tragicità di sentimenti umani opposti come la cattiveria e la pietà?

Durante la mia infanzia ho ascoltato storie di vita nella città occupata, degli interrogatori e delle prigioni della Gestapo, e anche storie delle foreste dove si radunavano i partigiani. E man mano che capivo meglio cosa stava accadendo, mi meravigliavo sempre di più di come la guerra avesse trasformato alcune persone comuni in bestie, mentre in altre avesse suscitato invece coraggio, amicizia e volontà di sacrificio. L’assurdità della violenza innesca anche il senso e il potere della compassione e della solidarietà. Niente è solo nero o solo bianco, solo odio o solo amore. È qualcosa di molto complicato, come nel mio romanzo.

Cos’è per lei il perdono?

Perdonare è soprattutto capire. O almeno cercare di comprendere cos’è successo tra le persone in un momento così difficile. Ma perdonare non significa dimenticare.

In che modo la sua prosa, e i temi dei suoi romanzi, sono stati influenzati dalla sua gioventù trascorsa in un regime antidemocratico come quello di Tito?

C’è forse c’è un presentimento della repressione invisibile o della paura. A scuola e a casa sono stato educato nello spirito dei valori della resistenza partigiana e del socialismo come 'il migliore dei mondi possibili'. Ma sempre poi i miei occhi si sono aperti sempre più verso gli umiliati e coloro che erano privati della loro dignità, spesso persino della loro libertà, e le tante vite innocenti che sono andate perdute negli anni del dopoguerra.

Nelle sue opere lei approfondisce il rapporto tra individuo e istituzioni repressive eppure è stato definito un autore 'jugonostalgico'. Come possono stare insieme queste due istanze?

Ha ragione, mi rendo conto che possa sembrare un po’ contorto. La Jugoslavia è stata per me un interessante spazio multiculturale. Dall’Europa centrale con la sua tradizione asburgica, di cui fa parte la Slovenia, al profondo sud balcanico, vissuto per secoli sotto l’Impero ottomano, si è verificato un miscuglio di lingue e di civiltà che hanno portato forme di vita originali in uno spazio comune. E nella vita culturale, soprattutto in quella letteraria, la Jugoslavia era relativamente libera, sicuramente molto più di altri paesi al di là della 'Cortina di ferro'. Ma politicamente era una dittatura e molte persone ne hanno sofferto. Provavo sempre più disgusto per la folla e le grandi manifestazioni per il compleanno di Tito. E ho anche avuto brutte esperienze con chi era al potere. Quindi: ricordo con nostalgia la sua diversità e la sua ricca vita culturale, ma provo rabbia nei confronti dei suoi apparatchik( funzionari) e della sua cecità ideologica.

Perché oggi gli scrittori non rappresentano più un’autorità morale come in passato?

Viviamo nell’era di Internet e le mie parole hanno spesso un minore o maggiore impatto sulla vita sociale e culturale a seconda del social network nel quale vengono diffuse. Se Tolstoj, Camus o Levi fossero vissuti oggi, le loro idee sarebbero state immediatamente sopraffatte da una massa di commenti più o meno stupidi espressi da persone mediocri. Ma le nostre storie, l’arte di scrivere e anche il nostro senso etico restano. Almeno per chi legge libri.

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