domenica 13 febbraio 2011
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«Che tu sia gazzella o leone, ogni mattina appena sveglio comincia a correre»... Eh sì, l’ambientazione del celebre apologo (storpiato anche da Aldo, Giovanni e Giacomo nella gag di un loro film) non è trovata a caso: la corsa infatti è nata in Africa. Come l’uomo, del resto: che secondo una celebre teoria – fu la corsa a renderci uomini, sostiene qualche scienziato – proprio in quelle savane imparò a stare eretto per dominare le alte erbe e cacciare, oppure sfuggire ai ben più rapidi predatori a quattro zampe. E la corsa è tuttora africana, in effetti, pur con parecchie eccezioni «bianche»: sia nelle lunghe distanze, patrimonio dei grandi maratoneti o dei mezzofondisti degli altipiani, sia nello scatto veloce, dove il dominio quasi assoluto appartiene ai garretti fulminei dei neri americani. «Corri, uomo, corri», prescriveva un vecchio spaghetti western: sottintendendo che la salvezza, la sopravvivenza dipendono spesso dalle proprie gambe. Per questo non spreca l’occasione la ponderosa Storia della Corsa, compilata dal norvegese Thor Gotaas e appena tradotta in Italia da Odoya (pp. 444, euro 20): avrebbe potuto limitarsi a una compilazione sportiva, allineando i moltissimi campioni che sono diventati mitici da Fidippide a Bolt nelle tante specialità dell’atletica; e invece – per nostra fortuna e piacere – allarga lo sguardo ben oltre, tentando un approccio storico e antropologico che rende ancor più fascinosa l’attrattiva dei record conquistati correndo in pista e su strada. Perché la poesia acquista dalla storia, e immaginare il pugliese Pietro Mennea quale erede cromosomico dei velocisti di Crotone (la colonia greca che produsse ben 11 dei 26 vincitori dello sprint in un secolo di Olimpiadi antiche), beh, è un’ipotesi che seduce persino più delle medaglie conquistate dalla nostra «freccia del Sud». Prima di essere un diletto, correre è stata una necessità, talvolta un mestiere: come per i corrieri – appunto –, categoria privilegiata in molte culture finché per lo scambio di comunicazioni non si trovarono mezzi più celeri e sicuri. I messaggeri inca, per esempio, erano professionisti scelti e allenati fin da piccolissimi, pagati dall’imperatore alla pari di un capovillaggio, poi distribuiti in stazioni di posta lungo la rete stradale in modo da garantire un’efficiente staffetta dall’uno all’altro fino a giungere il più rapidamente possibile a destinazione; pare che riuscissero a coprire 320 km in appena 24 ore. Peraltro sistemi analoghi, anche se assai meno organizzati, funzionarono in Europa dal Quattrocento all’Ottocento (ogni casata aveva al suo servizio corrieri privati, che grazie a specifiche diete e tecniche di allenamento potevano coprire anche 100 km al giorno), oppure tra i Sumeri 2000 anni prima di Cristo; ma pure il re Salomone – teste la Bibbia – aveva al suo servizio 10.000 corrieri. E poi si poteva correre per religione (in Tibet esisteva una classe di monaci corridori secondo un particolare stile «mistico», qualcosa di simile è noto anche in Giappone e del resto anche san Paolo coi Corinzi usa teologicamente la metafora della corsa) oppure come segno di potere: i faraoni dell’antico Egitto, ad esempio, per dimostrarsi degni del trono dovevano affrontare una periodica prova pubblica di velocità. Correvano ovviamente i greci, correvano i romani (il filosofo Seneca praticava il jogging quotidiano accompagnato da uno schiavo); correvano i cinesi e i mongoli, soprattutto se facevano parte delle unità militari di spostamento rapido, e gli indiani – in una rischiosa gara in cui venivano inseguiti da elefanti; ma correvano, e non solo a cavallo, anche gli altri indiani, cioè Apache e Navajos, per allenamento e quale tattica di guerra. Prima di loro i vichinghi erano reputati assai veloci, ma non quanto gli scozzesi tra medioevo ed età moderna; nei Paesi anglosassoni dal Seicento in poi si organizzavano pure corse femminili (in varie culture, peraltro, le donne sono considerate adatte ai percorsi di resistenza) durante le feste, con premi in denaro o vestiti. Infatti un po’ dappertutto si cominciava a correre anche per scommessa: la posizione accovacciata di partenza degli sprinter fu «inventata» nel 1887 da un aborigeno australiano che cercava appunto di guadagnarsi qualche soldo nelle gare di velocità. Anche gli italiani godettero di discreta fama corsaiola: già Dante cita una competizione veronese, e ancora nell’Ottocento i nobili austriaci preferivano come corrieri i nostri connazionali ai baschi. Che invece spopolavano in Francia, dove Rousseau tagliava il traguardo come primo uomo di cultura moderno a considerare il valore educativo della corsa. Un paio di secoli più tardi un pensatore suo connazionale, Jean Baudrillard, volle assistere alla maratona di New York, curioso di una massa sottoposta a «sofferenza volontaria», quasi una ricerca di «morte per sfinimento» attraverso «uno sforzo sovrumano ma futile»; alla fine non mutò il suo scetticismo, ma dovette ammettere: «Non avrei mai creduto che una corsa potesse farmi piangere».
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