sabato 10 gennaio 2015
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Il libro. «Volti di cenere. L’espropriazione del corpo nei campi di sterminio» è il titolo dell’intenso volumetto che Piero Stefani (nella foto) edita in questi giorni nella collana di testi brevi «Sguardi» di Edb (pp. 64, euro 6,50). Lo storico del pensiero ebraico all’università di Ferrara, nonché docente di ebraismo alla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale a Milano e presidente dell’associazione «Biblia», vi rielabora due capitoli del suo volume del 1988 «Il nome e la domanda. Dodici volti dell’ebraismo» (Morcelliana). Ne riprendiamo in questa pagina il brano su «La violenza, il corpo e la testimonianza», dedicato a una profonda riflessione sul senso del corpo proprio nel luogo che mirava solo alla sua distruzione: Auschwitz.
La cenere è un elemento leggero o, come si suol dire, impalpabile.Vola via, eppure, quando la si tocca, le mani ne restano impregnate. È un residuo; uno strato protettivo di braci sottostanti. Robert Walser l’ha definita l’elemento più arrendevole e paziente incapace di fare resistenza, quando la si calpesta quasi non ci si accorge di aver calcato qualcosa.  Tuttavia, se dal singolare si passa al plurale ogni cosa cambia. La levità lascia il posto alla pesantezza e ci si trova di fronte a realtà cui va attribuito un peso. Le ceneri sono anch’esse un resto, ma di norma sono onorate. Lo sono anche quando si introducono maniere non convenzionali per farlo: spargerle in mare non significa dissiparle se ciò rappresenta la volontà del defunto.  Rispetto alle ceneri la dura grammatica del lager ha trasformato il plurale in singolare. La traccia di leggerezza è ormai scomparsa. Ogni componente memoriale è stato mandato in fumo. Il riscatto da quella dissipazione ora è in grado di avvenire soltanto attraverso volti che hanno visto e, dopo, hanno avuto il coraggio di trasformare il loro sguardo in parole. Colti sotto questa luce, anche i loro volti sono diventati di cenere. Parte di quella polvere sottile è rimasta impressa su di loro. Essa però ha ripreso a volare quando si è trasformata in testimonianza. Da allora il suo scopo è far sì, da un lato, che pure l’animo degli ascoltatori conservi in sé tracce di quella cenere e, dall’altro, che qualche capo ne venga coperto. Le ceneri/cenere comportano la centralità della corporeità. La loro origine è là, espressione di una dimensione esposta alla distruzione. Nelle testimonianze dei sopravvissuti il riferimento al corpo, trasformatosi per i «sommersi» in fumo e cenere, svolge un ruolo centrale. Esso si presenta sia come condizione attraverso cui passa la sopravvivenza, sia come luogo che porta impresso, nel suo consumarsi e piagarsi, il segno della violenza subìta. L’azione violenta non si limitò alla sfera corporea, tuttavia essa passava sempre di lì. Il corpo è sempre il luogo d’attacco dell’azione ostile. Primo Levi ricorda che a Mauthausen il nerbo di gomma impiegato sul corpo dei prigionieri era denominato  der Dolmetscher, «l’interprete». Qualifica che, da un lato, evoca, con straordinaria efficacia, l’esproprio della parola a opera della violenza fisica, mentre, dal-l’altro, testimonia l’ultimo guizzo di un linguaggio ancora capace di trovare un termine pregnante per indicare la funzione assunta da quell’oggetto.  Le tracce sul corpo provano, testimoniano, raccontano. Le cicatrici sono eloquenti; tuttavia, proprio a causa del loro essere pubblicamente visibili, a volte divengono impietose. Come ogni altro linguaggio, anch’esse devono essere decodificate. Liana Millu, A 5384 di Auschwitz Birkenau, racconta che a Genova, nel settembre del 1945, faceva la fila all’Ente comunale di assistenza per ricevere le 500 lire di sua spettanza – allora erano qualcosa. L’attesa fu lunga, era quasi mezzogiorno e la giovane donna, stanca, appoggiò le braccia sullo sportello. L’impiegato si sporse per constatare quanta gente fosse ancora in fila. Fu allora che vide il numero tatuato sul braccio. Domandò di che si trattasse. Una volta udita la spiegazione ebbe un risolino sardonico, poi disse: «Vi marchiavano la pelle? Come bestie?», e aggiunse: «Dite che nei lager era un macello. Ma a vedere quanti vengono qui a beccarsi le 500 lire, mica si direbbe. Altro che sterminio!». Un secondo episodio. Nel corso di una conversazione privata, Liana Millu raccontò che in una calda estate catanese degli anni Cinquanta si trovava al banco di un locale per ordinare qualcosa da bere. Aveva le maniche corte – né allora né dopo si fece mai cancellare il numero. Mentre era lì, udì di sfuggita un altro avventore che, rivoltosi alla moglie, le sussurrava: «Guarda quella malafemmina tatuata». Erano tempi diversi dai nostri. Lo dimostra, accanto al soprassalto di perbenistico sdegno suscitato dalla vista di un tatuaggio, l’incapacità culturale di discernere un segno oggi diventato simbolo universalmente riconosciuto dell’aberrazione nazista.  I corpi dei sopravvissuti ai campi di morte, il cui misero stato di disumana magrezza è diventato uno degli emblemi della nostra storia, si presentano così, a un tempo, luogo di violenza subìta e di testimonianza. Sono un linguaggio da decifrare. Questi corpi logorati fino all’estremo delle forze, questi esseri umani diventati stomaci in preda a una fame che pare davvero ridurli, come scrive Feuerbach, a vuote pareti digerenti che si autoconsumano, dovevano sapersi sorvegliare. A loro era imposto anche di fingersi sani. Il momento in cui tutto ciò si rivelava con intollerabile intensità era quello della selezione – uno degli altri punti costanti dei racconti legati alla Shoah. La vita o la morte dipendevano non dall’essere sani, ma dall’apparire tali. Decretata la selezione «tutti i detenuti del blocco stavano nudi dentro ai letti: è così che si deve stare prima del Giudizio Universale». Di certo il giudizio c’era e da esso dipendevano letteralmente la vita e la morte. Tuttavia non solo si compiva di fronte al «giudice iniquo» (invece di compiersi davanti al Figlio dell’uomo che si identifica con chi ha fame e sete, Mt 25,3146), ma si attuava innanzi a un occhio spietatamente indagatore eppure, nel contempo, frettoloso.  Rispetto a esso si poteva perciò cercar difesa anche ricorrendo alla finzione. A differenza di quanto avverrà nell’ultimo giorno, qui si tentava di tener celato il fatto che i corpi fossero rivestiti ormai solo della semplice pelle. Davanti alla morte incombente tutto era affidato a fragili tentativi di dare al corpo un aspetto diverso da quello della massima prostrazione in cui si trovava. Nell’esperienza dei lager il corpo si collocò in una posizione di assoluta centralità: attraverso di esso passava la sopravvivenza. Ciò valeva sia in virtù del suo autoprolungarsi attraverso il cibo sia del suo fingersi sano di fronte al «giudice iniquo». Eppure nei campi di morte si sperimentò anche una specie di non salvifica dissociazione tra l’«io» del deportato e il suo corpo. In una delle sue pagine estreme, Wiesel racconta la terribile marcia nella neve a cui furono costretti gli sgombrati da Auschwitz ai primi del 1945. Tutta la vicenda era posta sotto un unico imperativo: correre, correre. Corpi debolissimi e piagati dovevano velocemente percorrere un interminabile cammino: «Io mettevo macchinalmente un piede dietro l’altro, trascinavo il mio corpo scheletrico ancora tanto pesante. Se avessi potuto sbarazzarmene! Malgrado i miei sforzi per non pensare sentivo che ero diviso in due: io e il mio corpo; e lo odiavo». La centralità del corpo non è tolta, la sopravvivenza passa ancora attraverso di esso; tuttavia si è costretti a non identificarsi in tutto con la propria corporeità. È in atto una dissociazione violenta e costrittiva; nella quale però balena per un attimo la possibilità di essere una realtà diversa da un puro «stomaco affamato». 
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