martedì 5 maggio 2020
Tre le ipotesi: restaurazione come nel 1815; o magari l’Ue sparirà per inettitudine; o un Rinascimento con un mondo più solidale e più ricco: gli strumenti ci sono già
Vittorio Emanuele Parsi

Vittorio Emanuele Parsi - Archivio Gennari/Siciliani

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La pandemia trasformerà le nostre società? Non sono i dieci giorni che sconvolsero il mondo, secondo il titolo ormai celeberrimo del reportage sulla Rivoluzione d’Ottobre di John Reed, ma il SARS–CoV–2 potrebbe anche essere un involontario agente di cambiamento geopolitico ed economico. Per ora ci costringe in un assedio dagli esiti imprevedibili. Tanto che il futuro pare difficilmente scrutabile. Ci ha provato coraggiosamente un politologo e analista acuto come Vittorio Emanuele Parsi, docente di Relazioni Internazionali all’Università Cattolica di Milano, dove dirige l’Alta scuola Aseri. Lo ha fatto con un agilissimo pamphlet pubblicato in ebook da Piemme, Vulnerabili: Come la pandemia cambierà il mondo. Tre scenari per la politica internazionale (pp. 76, euro 2,99, su tutti i siti librari).

Professor Parsi, qual è la vulnerabilità del nostro modo di vivere che il virus ha messo a nudo?

«Quella di una interdipendenza costruita senza considerare che, in qualunque sistema, la resilienza dell’elemento più fragile “detta” quella dell’intero sistema: e il fattore umano è sempre il più vulnerabile. Non è per nulla paradossale che la globalizzazione sia stata sospesa non da un virus informatico, ma da un virus biologico. Da circa quarant’anni viviamo in un mondo in cui tutto ciò che è mobile e dematerializzato ha acquisito un valore crescente e ha finito con il comprimere i diritti dell’essere umano e sminuirne la centralità. Il vero paradosso è che il culto per la dematerializzazione è l’ultima e più sottile forma di materialismo».

È molto interessante il caso dell’evento 201 (una recente simulazione di pandemia) che lei cita. Quanto abbiamo sottovalutato il rischio di una pandemia? E perché, a suo parere?

«I segnali erano insistenti e convergenti. Abbiamo corso il rischio pandemia globale con la Sars, l’ebola, le diverse forme di influenza aviaria. Attrezzarsi per essere in grado di fronteggiare una simile eventualità avrebbe significato investire denaro in una serie di misure non immediatamente profittevoli, il cui rendimento andava valutato sul lungo periodo. Una soluzione difficile in un sistema economico in cui “qui e subito” è diventata la logica prevalente. L’iperfinanziarizzazione dell’economia ha favorito questa deriva e ha comportato anche un progressivo sbilanciamento dei rapporti di potere tra i molti e i pochi. Qualcosa che si è tradotto nella perdita di efficacia della democrazia come strumento per contenere gli effetti politici della disuguaglianza».

Lei propone tre scenari per il dopo–Covid. Ce li può illustrare? Il primo è quello della Restaurazione...

«Nel quale, esattamente come avvenne nel 1815, prevarrà l’illusione di poter tornare a ricostituire l’ordine del sistema politico ed economico (tanto domestico quanto internazionale) “come se” quello della pandemia fosse stato un lungo, drammatico incidente di percorso. La competizione per la leadership tra Usa e Cina continuerebbe e la Ue sopravvivrebbe, tornando a una visione “budgettaria” della politica. I regimi politici interni accentuerebbero la loro dimensione tecnocratica spingendo alla demobilitazione politica».

Nello scenario della Fine dell’impero vede meno democrazia e la fine della Ue. Per quale motivo?

«Perché se la Ue non fosse in grado di “fare la differenza” neppure nella pandemia, se fallisse la sfida della solidarietà e della condivisione per la terza volta in 10 anni, il suo destino politico sarebbe segnato. Tanto più in uno scenario caratterizzato dal passaggio a un mondo chiuso in sfere di influenza politiche ed economiche, sempre più impermeabili, dove nessuno eserciterebbe una leadership globale e il multilateralismo svanirebbe. Ci sarebbe un forte rimbalzo nella direzione del sovranismo populista che travolgerebbe la Ue. Avremmo regimi leaderistici a mobilitazione politica dall’alto».

Nello scenario ottimistico del Rinascimento si riducono globalizzazione e diseguaglianze: come potrebbe accadere?

«L’impatto devastante della pandemia negli Stati Uniti associato all’appuntamento elettorale di novembre consentirebbe di cambiare il senso di cosa si ritiene “normale”. Le grandi crisi, come dopo il 1929 o dopo la Seconda guerra mondiale, offrono le sole vere straordinarie opportunità di cambiamento. E non dimentichiamo che anche l’attuale fase neoliberale prese avvio con la crisi degli anni 70 del Novecento. Per la loro centralità nel mondo attuale, associata al fatto che restano un sistema pluralistico in cui l’opinione pubblica “conta”, negli Stati Uniti si potrebbe ancora innescare il cambiamento. E le idee per realizzarlo sono in circolazione da 30 anni...»

Sarebbe anche uno scenario di minore ricchezza?

«No. Sarebbe un mondo più equo e meno disuguale. Più ricco semmai, perché più solido, resiliente. Sarebbe un mondo capace di concepire che l’equipaggio non è solo la componente più vulnerabile della nave, ma anche quella essenziale e insostituibile. Senza equipaggio, una nave è solo un vascello fantasma alla deriva».

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