venerdì 29 ottobre 2021
Il “visually satisfying” sta prepotentemente usurpando il trono al concetto di estetica. Il risultato è sempre meno interrogazione e sempre più sopore intellettuale
Una delle sculture “tatuate” di Fabio Viale esposte nella mostra “In Between” ai Musei Reali di Torino

Una delle sculture “tatuate” di Fabio Viale esposte nella mostra “In Between” ai Musei Reali di Torino - Mrt

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Il web in tutte le sue sfaccettature, dai social, alle tv streaming, ai network di ogni sorta, lavora quotidianamente alla nostra rieducazione linguistica attraverso un nuovo vocabolario coerente con le semplificazioni della indicizzazione Seo. Vocabolario che ha come priorità il primato della funzione, declinata nelle forme di una comunicazione il cui ecosistema prevede unicamente due categorie di nativo: il venditore e il compratore. La progressiva traduzione di tutto lo scibile umano in questo neo-idioma velocizza, omogeneizza e globalizza ogni contenuto fino a renderlo una sorta di melma virtuale di cui è del tutto inutile cercare un significato, dissolto nella marea indistinta dei dati. Da questo vocabolario origina una sintassi i cui meccanismi interni afferiscono esclusivamente a un ritorno di mercato. Senza accorgercene, o meglio, senza che ce ne preoccupiamo, veniamo traghettati docilmente dal cogito ergo sum al comprovendo ergo sum. Compro-vendo che riguarda indistintamente idee e immagine, gazebo e lampadine. La trasformazione linguistica, nonostante il suo effetto da diserbante culturale, porta alla luce una infinità di aspetti su cui riflettere. Uno di questi riguarda l’ascesa sempre più irresistibile di una definizione intesa a sostituire il concetto di bellezza e di estetica, congegnata per enfatizzare i contenuti visivi che circolano nei tumultuosi e ripetitivi torrenti digitali. Questa definizione è una sorta di in hoc signo vinces nell’esperanto della idiozia contemporanea. Senza che si sollevino in protesta la crusca e altre graminacee residuali, devo necessariamente riportarla nella sua forma più utilizzata che è inequivocabilmente anglofona: visually satisfying. Si potrebbe tradurre in visivamente appagante, ma non è così che viene utilizzata da mezzo mondo. La forma sintetica del pragmatismo anglosassone, preziosa per altri versi nello sfrondare la verbosità del nostro mondo filosofico e letterario, si presta a interpretare molto bene il drenaggio di contenuto progressivo che ogni forma di mercato, e a maggior ragione quello digitale, opera dal dopoguerra in poi. Il visivamente appagante sta prepotentemente usurpando il trono al concetto di estetica. Ne appiana ogni articolazione portandolo al livello di un appagamento sensoriale talmente superficiale e inconsistente da non riuscire a generare alcuna forma di memoria autonoma dell’evento. Si realizza così un ossimoro di contenuto che prima dell’avvento del web sarebbe stato impossibile prevedere. L’enfasi del termine si fonde con la totale inconsistenza. Il visually satisfying è una glassa rappresa intorno al nulla cui dà forma, la forma del vuoto. L’unica forma cui l’utente deve e forse vuole essere addomesticato. Il visually satisfying sta diventando, nelle intenzioni di chi comunica nel web, il doc e dop del digitale a largo consumo. Certificazione di qualità perfettamente congrua alla biosfera virtuale popolata da miriadi di esoscheletri variopinti, perfettamente credibili e privi di spessore vitale. L’etichetta viene applicata ovunque, a volte anche a contenuti interessanti e curiosi, oggetti di design, video elaborati, animazioni Cgi particolarmente intriganti e fluide, farfalle e cascate, cattedrali e tubetti di gel e chi più ne ha più ne metta. Non vi è categoria che resista alla tentazione di utilizzarla, dall’influencer al politico, dal ristoratore al teologo, dall’operaio al funzionario statale. Qualunque cosa sia deve sortire l’effetto della caramella per il bambino cui si deve dare la medicina amara. Qui anche la medicina amara è sparita, memoria di tempi andati per sempre. L’obiettivo vero è il nulla. Visivamente appagante definisce una sorta di droga leggera utile a spostare più in là ogni tensione, ogni riflessione, ogni inquietudine. Un anestetico volatile la cui potenza deriva dalla frequenza incessante con cui viene somministrato. Come tutti gli anestetici genera dipendenza e ci abitua, senza che ce ne rendiamo conto, a sentirci soddisfatti dal piano di superficie dell’appagamento rapido in ogni cosa che cerchiamo, in ogni gesto che facciamo, in ogni relazione che viviamo. Non è cosa da poco. La nostra capacità di relazione con l’estetica complessa e articolata, costituente essenziale della nostra esistenza e dell’universo che frequentiamo, viene progressivamente meno, fino a diventare refrattaria ad ogni “evento” che vada oltre il compiacimento sbrigativo dell’istante di un clic. Il fatto è che noi non siamo leggenda, ma pura abitudine. La natura ha deciso da principio che le informazioni visive sono prioritarie per la sopravvivenza. E per sopravvivere cercheremo sempre più e ovunque l’appagamento immediato e svuotato di profondità e di senso, confortati dal gruppo che usa quel linguaggio in modo estensivo garantendoci il riconoscimento inclusivo e confortante di una comunità acquiescente . Una comunità soporifera, tempesta perfetta dell’uragano che, si può starne certi, prenderà il sopravvento al momento giusto, trovandoci tutti addormentati, ma di certo visivamente appagati.

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