sabato 20 giugno 2015
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Visto con sospetto dal Sant’Uffizio per la sua vicinanza ai preti operai, esiliato, allontanato dall’insegnamento universitario e poi riabilitato e nominato perito al Concilio Vaticano II da Giovanni XXIII. Ma soprattutto un uomo del dialogo e del confronto con le altre confessioni cristiane e proprio per questo padre nobile dell’ecumenismo e dell’ecclesiologia post-conciliare. È la storia ma anche l’avventura cristiana del domenicano  Yves Marie Congar  (1904-1995), il “celta delle Ardenne”, secondo una felice definizione di Jean Pierre Jossua, che proprio il 22 giugno di vent’anni fa si spegneva dopo una lunga malattia nell’ospedale militare degli Invalides a Parigi, poche settimane dopo aver ricevuto la meritata onorificenza del cardinalato – per volere di Giovanni Paolo II – dal suo amico il cardinale Johannes Willebrands.  Un’eredità la sua ancora oggi attuale per essere stato assieme al suo confratello e maestro di teologia a Le Saulchoir in Belgio Marie Dominique Chenu e i gesuiti di Fourviére Henri de Lubac e Jean Daniélou tra gli artefici di quel rinnovamento spirituale nella Francia degli anni ’50 che passerà sotto il nome di “Nouvelle théologie”. Il domenicano di Sedan è ricordato oggi soprattutto nel campo della teologia contemporanea per alcuni saggi considerati pietre miliari come Per una teologia del laicato, Credo nello Spirito Santo, Vera e falsa riforma della Chiesa o il suo libro programmatico Chrétiens désunis. Ma è proprio nel corso delle quattro sessioni del Vaticano II che si imporrà la figura del domenicano francese soprattutto per il suo contributo alla stesura di importanti documenti conciliari come le costituzioni Lumen Gentium e la Gaudium et spes («molto devo in particolare ai padri Yves Congar e Henri de Lubac», dirà in quel frangente il giovane arcivescovo di Cracovia Karol Wojtyla). «Il domenicano francese fu tra i protagonisti di quell’evento – spiega il teologo don Luca Merlo e autore del recente saggio per la Morcelliana Yves Congar – e collaborò con dedizione alla stesura della metà dei documenti approvati. Tra i suoi numerosi meriti vi è senz’altro quello di aver fatto presentire già prima e soprattutto durante il Concilio che la Chiesa è il popolo di Dio che si realizza attraverso la comunione dei battezzati, il “noi” dei cristiani come amava ripetere. Oggi non può che rallegrarci il fatto che questa categoria ecclesiologica, dopo una recezione altalenante, sia autorevolmente rilanciata da papa Francesco in Evangelii Gaudium». Merlo si sofferma anche sulle grandi intuizioni congariane del post- Concilio a cominciare dal tema della ministerialità ecclesiale: «La sfida venne raccolta da Congar che, proprio alla luce della prospettiva comunionale assunta dal Vaticano II, abbandonò il binomio sacerdozio laicato, tipico dell’impostazione preconciliare per sostituirlo con quello di ministeri-comunità più rispondente alla dimensione diaconale che è di tutto il popolo di Dio. Basti pensare che oggi è impensabile consultare un testo sull’argomento che non richiami il suo contributo». Chi conserva ancora un ricordo nitido del periodo conciliare come degli ultimi anni «vissuti con una semplicità e dignità sorprendenti» agli Invalides di Parigi è il gesuita tedesco Karl Heinz Neufeld, che fu, tra l’altro, uno dei suoi ultimi allievi di dottorato all’Institut Catholique dal 1971 al 1975: «Egli ebbe in quel frangente una grande sintonia di vedute con De Lubac ma anche con Karl Rahner. Nel 1985 scrisse un contributo Ricordi di Karl Rahner al Vaticano II per il volume Bilder eines Lebens. Credo che il gesuita tedesco e il domenicano francese diedero soprattutto un contributo di tipo tecnico al Vaticano II: il primo più teologico sistematico mentre l’altro di impronta più storica. Uno dei grandi meriti di Congar è stata la sua lettura lungimirante del suo concetto di Chiesa e di tradizione rispetto a quello sostenuto da monsignor Marcel Lefebvre». Assieme alla sua grande capacità di «investigazione storica» nel campo dell’ecclesiologia padre Neufeld rievoca la sua azione di promotore ante litteram del lento cammino dell’unità dei cristiani. «È stato in un certo senso il precursore dei viaggi ecumenici di Paolo VI. Basti pensare ai suoi incontri – rileva –, già nel 1954, con Atenagora patriarca di Costantinopoli ad Atene e poi in Terra Santa con il patriarca ortodosso di Gerusalemme. Un uomo che proprio perché nato in un luogo di frontiera come Sedan ha capito prima di altri l’importanza del dialogo tra i fratelli separati». Un lascito nel campo ecumenico che è stata la bussola, in un certo senso, per il presidente emerito del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, il cardinale Walter Kasper: «La mia azione ha avuto come modello e riferimento l’ecclesiologia di Congar. Trovandomi a confronto con le tante diversità del mondo cristiano, dagli ortodossi ai protestanti, mi sono spesso trovato in questa frase del teologo domenicano: “Tutto, o quasi tutto, è uguale, eppure diverso”».  Il porporato tedesco torna con la mente ai tanti incontri avuti a Strasburgo, al convento di Saint Jacques o agli Invalides con Congar alle «differenze ermeneutiche e di linguaggio che emersero durante le lunghe riunioni redazionali della rivista “Concilium” tra il domenicano e il teologo svizzero Hans Küng».  «Io ero solo un giovane teologo – confida il cardinale – ma, grazie a Congar, quegli incontri mi permisero di andare alle origini di un tema come l’ecclesiologia. Mi impressionò la sua 'cella' carica di libri fino al soffitto e l’ordine meticoloso con cui schedava i suoi appunti da vero studioso e archivista di razza. Era un po’ amareggiato dal fatto che dopo il Concilio, soprattutto con la crisi del 1968, era ancora uno dei pochi tra i suoi confratelli del convento parigino di Saint Jacques a studiare teologia. “Vede molti preferiscono la sociologia”… mi disse con una punta di malinconia in refettorio. La sua amarezza affiorava anche negli ultimi anni della sua vita per le ventate di tradizionalismo rispetto all’eredità del Concilio». Un pensatore, agli occhi di Kasper, sempre orientato verso il futuro della Chiesa. «Per me è stato assieme a De Lubac – confida – il più grande ecclesiologo del Novecento, quello che ha inciso di più sulla Chiesa. Credo che avrebbe voluto scrivere in modo unitario un trattato di ecclesiologia soprattutto dopo il Vaticano II: ma forse per la multidisciplinarietà e frammentarietà dei suoi saperi non si sentiva di intraprendere un lavoro del genere». È degli ultimi incontri agli Invalides che Kasper conserva ancora oggi le istantanee più vivide: «Era un uomo innamorato della Chiesa: soffriva perché i frutti del Concilio tardavano a maturare ma soprattutto viveva con grande preoccupazione la deriva sociologica che aveva preso in quegli anni la Chiesa del post-Concilio soprattutto in Francia e in Europa. Sperava da buon domenicano in un ritorno alla centralità della teologia come cuore del cattolicesimo».
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