venerdì 24 febbraio 2023
Alla Fondation Beyeler una retrospettiva del pittore noto per i quadri di dolci. Spesso scambiato per pop, si radica invece nella linea poetica della “cosa” che caratterizza l’estetica statunitense
Wayne Thiebaud, “Pie Rows”, 1961

Wayne Thiebaud, “Pie Rows”, 1961 - Thiebaud Foundation/2022 Pro Litteris

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Uno dei crucci storici di artisti e critici statunitensi è stato quello di dare vita a un’arte “americana”, ossia un’arte la cui identità non avesse più vincoli con la modernità della vecchia Europa. Solitamente questo approdo viene individuato nella stagione dell’espressionismo astratto, tanto newyorkese quanto della West Coast: fatto però opinabile visto che da una parte la radice di queste esperienze è di matrice surrealista e dall’altra l’espressionismo astratto ha un forte corrispettivo nell’informale al di qua dell’oceano. Appare più stimolante cercare altrove un’arte che non si sarebbe potuta fare in Europa. Due sono i candidati possibili, senza gerarchie. Il primo è la pittura realista che ha come laboratorio non l’accademia ma gli studi della cartellonistica e dell’illustrazione pubblicitaria: si pensi allo stesso Hopper e a Norman Rockwell per arrivare fino ad Alex Katz e Ed Ruscha. Certo, l’affiche ha una forte tradizione europea ma con due grandi differenze: la prima è il contesto socioeconomico, dato che il consumo di massa e i codici visivi che ne conseguono sono una primizia statunitense; la seconda è un processo che in Europa vede gli artisti portare il linguaggio delle avanguardie nella pubblicità e non viceversa. Il secondo candidato è il minimalismo, il cui uso di elementi primari, reiterati, proposti in sequenze senza varianti virtualmente estensibili all’infinito esclude a priori la categoria di sviluppo tipicamente europea mentre l’impiego senza mediazione di semilavorati e prefabbricati industriali esclude ogni intenzione di trascendere la materia in metafisica o metafora: le forme non sono altro che un’affermazione letterale della loro esistenza. Per quanto queste due estetiche sembrino mondi tra loro opposti, entrambe si fondano sullo stesso pilastro: the thing, la “cosa”. E “la cosa” è una delle chiavi possibili per accostare l’opera di Wayne Thiebaud, pittore americano scomparso in California nel 2021 a 101 anni, e a cui la Fondation Beyeler dedica fino al 21 maggio un’ampia retrospettiva che accanto ai lavori più noti – i dolci, i gelati, i barattoli di vernice (presentati in sequenze “minima-liste”) e i ritratti, sempre affrontati con lo spirito dello still life – presenta anche una ricca di serie di paesaggi, rurali e urbani, molto interessante e pressoché sconosciuta. Thiebaud ha una formazione di pittore commerciale, è stato apprendista presso i Walt Disney Studios, ha lavorato come grafico commerciale e illustratore pubblicitario. La carriera pittorica vera e propria inizia negli anni ‘50. Il suo lavoro è caratterizzato da una apparente accessibilità facilitata dalla vena umoristica ma, come esplicita 35 cent Masterworks (1970-1972), espositore di dispense illustrate di grandi maestri, dimostra una costante riflessione sulla storia dell’arte rinascimentale (Botticelli e Giorgione) e moderna, da Morandi e De Chirico fino all’astrazione di Mondrian. Lo stesso realismo è apparente: la densità della pittura corrisponde alla densità della “cosa” (la cremosità delle torte) ma non le cromie. Nei barattoli di vernice, dove il colore è usato in modo tautologico, la “cosa” rappresentata e la “cosa” che la rappresenta coincidono: eppure questo non è diverso ad esempio da Morris Louis o Frank Stella, per il quale nella sua pittura «è presente solo ciò che vi può essere visto». Ma soprattutto questi oggetti, che siano cupcake, Topolino o donne in costume da bagno, si collocano oltre una diaframma, visibile o implicito: vicini ma inattingibili, comunque separati. D’altronde quale è la lezione della pubblicità se non suscitare un desiderio continuo e mai davvero appagabile? Tutto in queste immagini è concreto e irreale. Si prenda ad esempio Woman in tub (1965), ritratto della moglie in una vasca da bagno, dove il trattamento quasi scultoreo del capo è sorprendentemente armonizzato con una struttura di fatto astratta che sembra guardare a Noland. Il dispositivo che consente questa simbiosi è una luce cruda e artificiale, con linee e ombre dalle tinte acide che mettono in vibrazione profili e contorni. È una tecnica di derivazione postimpressionista, evidente nei paesaggi, datati tra gli anni ‘90 e 2000, immersi nella complessità cromatica della luce radente e al cui interno si combinano e fondono punti di vista molteplici. Le distorsioni spaziali continuano nella serie dedicata a dirupi e scogliere, in cui la pittura tra l’altro si fa meno controllata. Rispetto ai lavori di still life resta il senso, insieme fiabesco e inquietante, di un reale impossibile.

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