mercoledì 9 maggio 2012
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«Di fianco al cancello non c’era anima viva. Meglio cosí. Non voleva che qualcuno lo vedesse piangere». La frase di una ballata malinconica o l’incipit di un racconto? Luciano Ligabue, rocker sanguigno e intergenerazionale, regista cinematografico e scrittore non a tempo perso, ha tutte le carte in regola per presentarsi al Salone del Libro di Torino con l’ultima raccolta di racconti Il rumore dei baci a vuoto, edito da Einaudi, il prossimo sabato. È l’occasione, quindi, per fare il punto insieme a lui sul suo rapporto con i libri e con la scrittura. Luciano, scorrendo il libro che presenterai a Torino, c’è molto del tuo vissuto. Il comico protagonista del capitolo «La puzza non passa» che rovina la sua esibizione benefica, per esempio, quanto assomiglia a certe rockstar? «Lo spunto sono esperienze che ho vissuto personalmente. È ovvio che in un racconto tutto diventa più spinto, eccessivo. Però anch’io, come il protagonista, ho avuto la sensazione di quanto sia difficile conquistare la fiducia del pubblico. C’è un senso di fragilità, la paura che qualcosa possa mandare all’aria tutto quello che si è costruito. Io mi ritengo fortunatissimo. È chiaro, però, che questo è un mestiere fuori controllo. Non basta solo quello che uno fa, è un mestiere aleatorio, devi adeguarti al fatto che la gente, ad un certo punto, passa ad altro».In quello che scrivi c’è anche la crisi. Uno come te che è diventato famoso da adulto e che continua a vivere in mezzo alla gente, come vive la crisi degli altri? «La depressione in cui stiamo versando ha provato molto psicologicamente il Paese. È inutile negare che la crisi economica porti effetti devastanti. È come una grande nuvola nera che si è installata nella casa di tutti. Se ne vedono gli effetti, ma non se ne capisce la portata: questo la rende più minacciosa. Però credo che in questo momento ci sia qualcosa che ci unisce, noi che siamo un Paese così diviso, dalle regioni, dalle ideologie, dalle lingue, dall’informazione. È comunque il dolore che si prova per questa situazione, che ci fa sentire accomunati».Nei nuovi racconti c’è anche, spesso, la fatica della coppia ma più in generale dei sentimenti. Contro tutto e tutti. Quasi una sfida disperata. Perché?«Le coppie fanno fatica, ma cercano di andare avanti. Io credo fortemente nella famiglia. Dopodiché ho dovuto prendere atto che non sempre funziona. Ci credo perché provengo da un osservatorio privilegiato. La mia famiglia era composta da una coppia che è stata insieme per una vita con gioia, con tenacia e con amore. Con questi modelli in casa pensavo che tutto il mondo fosse così, poi ho capito che era una situazione molto fortunata. Io racconto la fragilità delle coppie, che risentono di tutti gli stimoli, le influenze e la frenesia che ci impone la società».In La neve se ne frega del 2004 raccontavi con dolore della perdita di un bambino. Mettere il privato più profondo in un racconto è inevitabile, terapeutico o cosa?«È evitabilissimo. Non sono chiamato a scrivere del privato. Ma mi ci sono ritrovato col tempo. In parte ha sicuramente un effetto terapeutico. Fanno sentire meno solo te, ma anche altri che ne hanno vissuti altrettanti in maniera diversa».Quest’anno a Torino il tema del salone del libro è la primavera digitale. Il tuo rapporto con le tecnologie?«Con la tecnologia applicata alla musica riesco a fare cose che prima non si potevano fare. Grazie ai sistemi di registrazione sui pc posso fare tutti i provini che voglio a casa e giocare un po’ con gli arrangiamenti. Per quanto riguarda la scrittura, ho avuto la fortuna di aver scelto la scuola sbagliata. Ho fatto dattilografia. Ho imparato a scrivere con dieci dita, sono velocissimo al computer. Questo mi permette di segure i pensieri quasi in tempo reale e questo in genere diventa il mio processo di scrittura. La prima stesura di qualunque cosa si scriva vicina al flusso di coscienza, mi sembra sia la cosa più vera».Hai mai letto un e-book? Il libro sparirà?«Gli e-book non mi affascinano. A me piacciono i libri, mi piace tenerli in mano, mi piace conservarli. Da ragazzino sognavo che un giorno in pensione avrei letto tutti i miei libri. Mi piace la loro presenza». Tu scrivi, canzoni, poesie, sceneggiature, romanzi. Ma leggi anche molto? Cosa ti piace?«Leggo molto, ma non c’è un genere. Il mio preferito degli ultimi anni è Philip Roth. Un libro che mi è piaciuto molto, e che mi ha fatto sforare alla regola di non leggere libri oltre le 400 pagine è 1q84 di Murakami, che ne ha settecento. E poi mi piacciono De Lillo, Paul Auster, e in genere gli scrittori americani. E poi ho letto la biografia molto divertente di Keith Richards».
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