
Ansa
Ogni storia è diversa dalle altre, e non c’è un viaggio che sia uguale a un altro viaggio, né un sentiero che si possa percorrere due volte. Giorno dopo giorno, notte dopo notte, la strada sale un po’ più in costa oppure scende verso valle. Si prova a passare di là una, due, tre volte. Alla quarta, di solito, si riesce nell’impresa, ma ci sono anche i casi estremi, che comportano una decina di respingimenti. Più estremo di tutti – ma non così raro come si potrebbe pensare – è il caso di chi perde la vita nel tentativo, nonostante questa non sia la più impervia tra le frontiere di un’Europa frettolosamente trasformata in fortezza. Va peggio nel Mediterraneo, il gran cimitero d’acqua nel quale si inabissano gommoni sfiancati e carrette mandate apposta in mezzo al mare, perché c’è il rischio che la guardia costiera sequestri l’imbarcazione e a quel punto l’investimento in un mezzo più sicuro smette di essere vantaggioso. Qui non siamo al confine orientale dell’Ungheria, dove il filo spinato cede il posto a barriere affilate come lame. E non siamo neppure a Calais, ultima giungla continentale prima del balzo – sempre rinviato – nel Regno Unito.
Quello che separa l’Italia dalla Francia è un confine tutto sommato gentile, anche perché in effetti non sarebbe neppure un confine. Non lo è stato fino al XVIII secolo, quando la zona del Monginevro cominciò a essere presidiata per limitare l’invadenza dei «piemontesi», ai quali le cronache dell’epoca imputano i medesimi difetti oggi riferiti ai migranti provenienti dall’Africa o dall’Asia. A rigore, per effetto degli accordi di Schengen, dalla Val di Susa a Briançon ci si sposta senza bisogno di controlli, ma all’atto pratico bisogna avere i documenti in regola. Altrimenti sono guai, i guai meticolosamente analizzati da Didier Fassin e Anne-Claire Defossez in Umanità in esilio. Cronache dalla frontiera alpina (traduzione di Lorenzo Alunni, Feltrinelli, pagine 400, euro 25,00), un libro che è destinato a diventare una pietra miliare nella letteratura sul tema.
A differenza di tanti altri racconti di migrazione, senz’altro lodevoli per intenzioni ma spesso troppo preoccupati di assecondare l’emotività del lettore, Umanità in esilio è un resoconto asciutto, nel quale un’impeccabile metodologia accademica permette di valorizzare i risultati di una vasta indagine sul campo. Dei due autori, già noto in Italia è Fassin, medico e antropologo (tra i suoi saggi precedenti, andrà ricordato almeno Punire. Una passione contemporanea, edito dalla stessa Feltrinelli nel 2018), membro del Collège de France e docente all’Institute of Advanced Study di Princeton, dove insegna anche Defossez, che è invece sociologa. Insieme, dal 2018 al 2023, hanno trascorso lunghi periodi nella zona del Monginevro, raccogliendo più di duecento testimonianze distribuite su tre distinti gruppi, le cui voci si intersecano adesso all’interno del volume. Al primo posto ci sono quelli che – con una mossa rivelatrice anche sotto il profilo politico – Fassin e Defossez definiscono «esuli». Non migranti e nemmeno rifugiati, termine che ha ormai una sua tradizione consolidata (Noi rifugiati è il titolo del pamphlet con cui, nel 1943, Hannah Arendt descriveva lo spaesamento degli europei spinti dalla guerra a trovare riparo negli Stati Uniti). «Esule» è una parola antica, che presuppone l’esistenza di una patria perduta in modo ormai irrimediabile. Questa, secondo Fassin e Defossez, è l’evidenza decisiva che il discorso pubblico ha deciso di ignorare, con uno stratagemma lessicale che induce a ritenere irrilevanti le sofferenze dei fuggitivi.
Il secondo insieme è composto dagli agenti delle forze dell’ordine, raramente presi in considerazione come parte in causa. Umanità in esilio ricostruisce la complessità della loro posizione e l’imprevedibilità delle loro reazioni, registrando non solo la tendenziale differenza tra l’atteggiamento più comprensivo delle pattuglie italiane rispetto a quelle francesi (il ripristino della frontiera, del resto, è stato voluto dalle autorità di Parigi), ma anche il sovrapporsi di interventi in apparenza contraddittori. Se numerosi sono gli episodi che denotano una propensione al dispotismo, all’origine del quale si percepisce un razzismo tanto radicato da risultare istintivo, non mancano le risultanze di segno opposto, che rimandano a piccole iniziative individuali escogitate a beneficio degli esuli. Per certi aspetti, questa è la sezione più interessante del dossier allestito da Fassin e Defossez, che permettono di riconoscere le differenti fasi di un’azione che, contrariamente a quanto si potrebbe ritenere, non è stata affatto omogenea nel corso del tempo. Nella fattispecie, l’introduzione di una superficiale logica di efficienza (la cosiddetta «politica dei numeri», molto vantaggiosa in chiave elettorale) ha portato a un inasprimento dei respingimenti che paradossalmente prescinde dalla loro reale efficacia. Che gli esuli, presto o tardi, riescano a passare è una verità ammessa dagli stessi agenti, i quali tuttavia insistono nell’attribuire un valore simbolico o, meglio, di deterrenza al proprio operato.
Il terzo gruppo ad avere voce nelle pagine di Umanità in esilio è quello dei «solidali», neologismo che anche in francese è in effetti un aggettivo sostantivato (les solidaires) e che permette di radunare sotto un’unica etichetta una varietà di iniziative a favore degli esuli. Attenti a ciascuno dei raggruppamenti presi in esame, Fassin e Defossez non nascondono la vicinanza nei confronti dei solidali, alle cui «ronde» hanno preso parte in modo sistematico. Non per questo sottovalutano le discontinuità che si riscontrano anche in questa compagine, nella quale confluiscono – dettaglio non trascurabile – molte persone trasferitesi a Briançon in tempi relativamente recenti: una scelta di vita che, a quanto pare, non è priva di conseguenze per quanto riguarda la comprensione riservata agli esuli.
Non espressamente censito, è presente infine un quarto gruppo, che potremmo qualificare come quello degli antisolidali: xenofobi dichiarati, agitatori dell’intolleranza, propagandisti del nazionalismo fortificato. A loro Umanità in esilio riserva giusto una comparsata iniziale, con la rievocazione del presidio contro gli esuli che nel 2018 causò dapprima la reazione dei solidali e poi la militarizzazione del Monginevro. Dopo quella provocazione, gli antisolidali non sono più stati avvistati in valle. Forse perché frontiere e confini si vedono con illusoria lentezza solo da lontano, ma svaniscono nel nulla – come ogni astrazione che si rispetti – mentre si cammina disorientati in mezzo alla neve o mentre ci si sposta al buio tra gli alberi del bosco.