giovedì 27 ottobre 2016
Alla soglia degli 80 anni lo scrittore statunitense ci consegna una delle sue prove maggiori, “Zero K”: una meditazione su vita e morte nella quale la rivelazione viene dal dettaglio, dal residuo
Lo scrittore statunitense Don DeLillo: di origini italiane, è nato a New York il 20 novembre 1936

Lo scrittore statunitense Don DeLillo: di origini italiane, è nato a New York il 20 novembre 1936

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Sospesi nel vuoto, aspettano. Giù, nel profondo di una grotta che sembra un bunker, o forse è vero il contrario: è un bunker, sembra una grotta. Conservati a una temperatura che si avvicina allo zero assoluto della scala Kelvin, svuotati degli organi interni, in alcuni casi addirittura decapitati per eccesso di precauzione (sappiamo così ancora poco del cervello, meglio mettere in salvo contenuto e contenitore). Quei corpi non sono solo corpi, perché aspettano. Che cosa? La risposta si può articolare in modi diversi: la singolarità, il risveglio, la convergenza di ogni simbolo matematico nelle due brevi linee parallele dell’uguale. A voler essere sinceri fino in fondo, quei corpi – come tutti i corpi – aspettano la risurrezione. E forse è proprio per nascondere questa semplice evidenza che gli esperti di Convergence hanno deciso di dotarsi di uno strumento più potente di qualsiasi ritrovato tecnologico. Una nuova lingua, né più né meno. Un sistema di immagini e parole che non cambi nulla in superficie (il segno dell’uguale, ricordate?) e intanto trasformi radicalmente il rapporto tra l’essere umano e il mondo. Realizzando ogni desiderio, a partire da quello di rendere immortale la morte.

Pubblicato alla soglia degli ottant’anni (l’autore li compirà il prossimo 20 novembre), Zero K (Einaudi, pagine 244, euro 19,00) è uno dei libri più importanti e più impressionanti di Don DeLillo. Affermazione impegnativa, se si considera che nella bibliografia di DeLillo figurano Rumore bianco (1987) e Underworld (1997), Body Art (2001) e L’uomo che cade (2007), fino a Punto Omega (2010), che di Zero K rappresenta l’antecedente più prossimo. Libri che, di volta in volta, hanno segnato una linea di demarcazione, rendendo più netti i confini di un territorio che solo per convenzione può essere identificato con il postmoderno e che costituisce, invece, il vero campo di forze della letteratura contemporanea. Una distesa in apparenza brulla, come i deserti che tanta parte occupano nell’opera di DeLillo. Ce n’è uno anche in Zero K (magnificamente reso in italiano da Federica Aceto, tra le migliori e più attive traduttrici di questa stagione) ed è quello della regione di Celjabinsk, tra Russia e Uzbekistan. Come ricordato nel romanzo, è qui che nel 2013 un meteorite è entrato in collisione con l’atmosfera terrestre, dando luogo a una pioggia di detriti che ci riconduce, una volta di più, all’immaginario caratteristico di DeLillo.

Zero K è suddiviso in due parti pressoché identiche per estensione, in mezzo alle quali si trova, a fare da cerniera, una breve sezione dall’andamento quasi baudelairiano di poème en prose. La voce che ascoltiamo, ammesso che di voce si possa parlare, è quella di Artis Martineau, che è in effetti uno di quei corpi in attesa evocati poco fa. La donna è già passata dall’altra parte. Malata, ha deciso di aderire al programma di crioconservazione gestito da Convergence, l’avveniristica società ultratecnologica entusiasticamente sostenuta dal magnate Ross Lockhart, che di Artis è il marito. Convergence non è solo un’azienda, la stessa ricodificazione del linguaggio non è esente da implicazioni misticheggianti. La sede centrale, in una remota zona degli Urali, è disseminata da interventi artistici che fanno dell’edificio un’installazione in sé. Chi si prepara a far congelare il proprio corpo può dialogare con una sorta di assistente spirituale che parla di sé come dell’«ospitaliere» e che Jeffrey – figlio di primo letto di Ross, convocato a Convergence per assistere al trapasso di Artis – decide di chiamare «il Monaco». Nomi e definizioni sono, da sempre, l’ossessione di Jeffrey, che segue almeno in questo le orme del padre, il cui successo nella finanza si basa, tra l’altro, sulla manipolazione delle proprie generalità anagrafiche.Artis, dunque, è scesa nel bunker, nella grotta. Eppure in lei rimane un residuo di consapevelezza. Anzi, come lei stessa (la sua voce, l’ombra della sua voce) afferma parlando di sé in terza persona: «Lei è il residuo, quel che resta di un’identità». Anche al di fuori della maestosa sinfonia di Underworld, tutta costruita sul tema della spazzatura, la narrativa di DeLillo è da sempre un’indagine su queste risultanze marginali, su dettagli altrimenti trascurabili che si rivelano poi capaci di capovolgere gli schemi convenzionali e allargare la visione. Jeffrey, per esempio, non comprende fino in fondo la necessità degli schermi che portano all’interno dell’asettico impianto di Convergence l’impuro tumulto del mondo esterno. Ma è proprio da uno di quei monitor che gli giungerà la rivelazione che ribalta vita e morte, attesa e presenza, figliolanza e paternità. Perché l’ultimo residuo, impossibile da cancellare, è la sapienza dei corpi.

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