Antonella Lumini - archivio
Insieme al fardello della nostra umanità, che ci tiene ancorati a terra, convive, spesso misconosciuto o mal compreso, il desiderio di alzare gli occhi al cielo e insieme a essi raggiungere il sentimento dell’eterno. Uscire dalla limitatezza in cui ci siamo relegati per muoverci verso dove ci sentiamo chiamati. Il Vangelo indica una strada e ci dice che per andare non possiamo lasciarci dietro il peso della vita, anzi, quel peso, oltre a essere ciò che ci caratterizza, è la nostra risorsa. Tutta da capire e da accettare, naturalmente, altrimenti non potremo mai vivere la pienezza di quel che siamo. «Prendere la croce richiede di rendersi conto della propria pesantezza, dei nodi che incatenano, delle proprie schiavitù». Solo così, consapevoli dei limiti, possiamo pensare di fare pace con noi stessi, «aderire a Dio in ogni attimo del tempo, sapendo che il tempo appartiene all’eterno e che l’aldilà è sempre già “al di qua”. Aderire a Dio sapendo di essere vivi, capaci d’amore… incamminarsi, uscire da se stessi, affidarsi».
Questo è il sentimento che anima Dentro il silenzio di Antonella Lumini (Lindau, pagine 167, euro 16). Il sottotitolo parla di “Viaggio nell’interiorità”, ma, forse, più che viaggio è un movimento, il desiderio di disancorarsi per andare, per muoversi insieme al sentimento della vita piena, immergersi per vivere in esso, con i suoi tempi: quelli della lettura, che più direttamente ci competono, ma anche quelli che solo in parte ci appartengono, perché in essi il tempo si dilata, non è soltanto nostro e assume come sola unità di misura quella del movimento e del suo sentire. Parliamo dei tempi della preghiera, della meditazione, dell’incontro con la nostra interiorità. Ciascuno e tutti insieme avvolti nell’unico movimento dell’incontro con Dio.
Non un punto lontano al quale tendere senza mai arrivare, ma un movimento in cui il solo porsi nel gesto di andare è già un incrociarsi di sguardi con l’Eterno, che genera ulteriore movimento. I tempi e, dicevamo, anche la temperie. Quella della vita, che è necessario vivere fino in fondo. Con i suoi alti e bassi, nel suo inevitabile confronto col peccato, col male e la malvagità che è nel mondo (1Gv 5,19). Questo è il nostro fardello, la croce che siamo invitati a prendere per seguire Gesù. Prenderla e portarla, non subirla, perché la vita ha inevitabilmente i suoi aspetti negativi e noi i nostri limiti di orgoglio, di vanità e di superbia. Capirli, accettarli è indispensabile al movimento. Il necessario gesto di chi salpa l’ancora per andare. Non una volta per tutte, ma da ripetersi, sempre nuovo, al riproporsi della chiamata, scoprendo che davvero il giogo si fa più dolce e il peso più leggero (Mt 11,30).
Non scansare il peso, ma assumerlo. Questo è il gesto fondante della piena umanità. Non orgogliosamente respingerlo, ma umilmente mettersi nelle condizioni di accoglierlo e di portarlo, nella debolezza (2Cor 12,10). Dentro il silenzio lo evidenzia con delicata efficacia: non c’è meditazione, non c’è preghiera, non c’è movimento, non c’è Dio se non c’è umiltà. «Dio è umile», ha più volte affermato papa Francesco (Meditazione del 5/12/2017), e Lumini, citando Agostino, sottolinea che «ogni fortezza è nell’umiltà». Nel confronto con il mondo, secondo la visione giovannea, tutto questo pone di fronte a inaccettabili contraddizioni, delle quali, però, le riflessioni di Lumini spesso si nutrono, attingendo a piene mani dalla Scrittura, che viene mostrata, una volta di più, desiderabile fonte per chiunque si voglia muovere su una strada di verità e di autentica libertà.
Così, prendendo spunto dalla risposta di Gesù alla domanda dei farisei sul più importante dei comandamenti (Mt 22,37- 40), riflette: «Non possiamo amare il prossimo se non amiamo noi stessi. Per amare noi stessi non ci possiamo più nascondere. Dobbiamo accettare di guardarci in faccia anche se ne abbiamo paura. Tutto quello che c’è desidera uscire allo scoperto. Ma può venire fuori solo nella luce. La luce è lo specchio in cui ognuno può accettare di guardarsi per fare affiorare le proprie ombre, le piaghe, le ferite. Come fuoco che penetra in profondità e brucia per purificare, rigenerare. Abbandonandoci a questa luce che ama, piano piano riusciamo ad amare noi stessi. Allora riusciremo ad amare le altre creature perché avremo amato l’ultima, la più misera».
Nella breve introduzione al testo, l’autrice spiega che si tratta di meditazioni scritte fra il 1986 e il 1987, qualche tempo dopo aver scoperto la potenza chiarificatrice del silenzio e quindi nei primi anni del suo cammino di fede e di vita eremitica. Meditazioni, aggiungiamo noi, che si sviluppano in una forma, a tratti poetica, capace di immergere il lettore nel mistero, con non comune immediatezza. A dimostrazione, come dicevamo, che il porsi nel “sentimento del movimento” mette, fin dal principio, in condizione di incrociare lo sguardo e il volto di Dio.