sabato 16 gennaio 2010
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Il calcio oltre la crisi. Chi ha un club per le mani se lo tiene stretto. E i pochi che preferiscono cedere non hanno difficoltà a trovare acquirenti. Sembra che il calcio faccia sempre gola, pur sommerso in un mare di debiti e stretto nella morsa della crisi mondiale. Magari si stringe la cinghia rispetto a un tempo ma di passare la mano non se ne parla. Anzi, qualcuno si spinge oltre. Chi nel calcio già c’è fa un ulteriore passo in avanti. E chi c’era fa in modo di tornarci. Storie degli ultimi giorni, esemplari in tal senso. Massimo Cellino a Cagliari ci sta un gran bene. Ma vuol regalarsi un altro giocattolo. Un bel viaggio, destinazione Londra. Viaggio costoso, roba da 100 milioni di euro, mica noccioline. Il West Ham ha fascino e storia, ma non si capisce bene se vale il sacrificio economico. I proprietari islandesi (legati alla Landsbank, colpita dal crack) volevano cedere: si sono fatti avanti non in pochi. Cellino dovrebbe spuntarla. Non sarà una passeggiata, nei conti come in campo (gli Hammers di Zola lottano per non retrocedere). Secondo i calcoli più recenti il debito del West Ham ammonta a 93 milioni di euro. Non il massimo in un calcio che è indebitato fino al collo, ma comunque una somma rispettabile. Soprattutto a vedere quel che accade in Premier League: Abramovich (Chelsea) e gli sceicchi di Abu Dhabi (Manchester City) che ripianano debiti milionari (380 milioni per i Blues, 103 per i Citizens) trasformandoli in azioni, Malcom Glazer (Manchester United) che lancia i suoi bond per convertire un passivo pari a 723 milioni. Cellino dunque sbarca in Inghilterra, dove le 4 grandi assommano debiti per 1900 milioni (465 per l’Arsenal, 333 per il Liverpool): come entrare in una banca senza soldi in cassa. Certo, c’è l’altra faccia della medaglia: stadi di proprietà, tifosi affezionati, diritti tv e merchandising venduti a prezzi elevati. Aspetti evidenziati da chi ha preceduto Cellino, nella fattispecie Flavio Briatore, approdato un paio d’anni fa al Qeens Park Rangers, Seconda Divisione inglese (ma con una solida compagnia di soci): «Su 19 mila posti - dice l’ex manager della Reanault in Formula 1 - abbiamo una media di 16 mila spettatori: i biglietti costano molto più che in Italia, così facciamo il 50 per cento degli incassi del Milan. Se arriviamo in Premier, ne prendiamo come minimo 60 di diritti televisivi, basta arrivare decimi e diventano 70. E lo stadio è nostro: altra fonte di introiti». Da noi sarà diverso, ma la musica cambia poco. Gli imprenditori se ne infischiano della crisi e si tuffano nel calcio. Per un patron che va, ce n’è un altro che arriva. A Siena, ad esempio. Il discusso Lombardi Stronati passa il testimone, Massimo Mezzaroma (la sua famiglia ha un passato alla Roma) lo raccoglie. Altra storia, rispetto al West Ham. Piccolo club, stadio impresentabile, scarso pubblico. Ma l’imprenditorie capitolino ci si è buttato a capofitto. Del resto, i conti sono in ordine, i costi (47 milioni) sono sotto controllo, le singole voci rispecchiano l’andamento generale di un bilancio in attivo (23,5 milioni di salari). Se a Siena si può campare tranquilli, altrove c’è chi coi debiti ci convive alla grande. In quella classifica comandano le milanesi (poco meno di 400 milioni per entrambe), ma non sono ben messe le romane: 153 milioni per la Roma, 165 per la Lazio. Lotito sta risanando e dalla sua sedia non lo schioda neppure una contestazione infinita (come Cairo al Torino, club appetito da Gaucci), la Sensi, stretta fra passivo e banche, non ne vuol sapere di lasciare. Lì entrano in gioco altri fattori. Gli stadi, soprattutto. I nostri sono vecchi, la corsa agli impianti di proprietà è aperta. Roma e Lazio hanno i loro progetti, ancor in itinere: non solo stadi, ma anche centri commerciali da record. La nuova gallina dalle uova d’oro. E il calcio dimentica la crisi.
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