giovedì 20 dicembre 2018
Il “comune senso” è perso e l’uomo è merce senza protezioni, vedi il caso Bertolucci in “Ultimo tango a Parigi”. Tra le cause il mito della trasparenza e l'esibizionismo sui social media
Adamo ed Eva nella Cacciata dal Paradiso di Masaccio alla Cappella Brancacci (particolare)

Adamo ed Eva nella Cacciata dal Paradiso di Masaccio alla Cappella Brancacci (particolare)

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Confesso il mio peccato di gioventù: non ho mai visto Ultimo tango a Parigi. Era il 1973 e ne sentivo parlare da amici di qualche anno più grandi, che avendo la maggiore età avevano visto il film e citavano spesso la «scena del burro». È quella dove Marlon Brando (che ebbe l’Oscar) usa il burro per praticare sulla sua amante (Maria Schneider) un atto di sodomia. Potrebbe sembrare già questo un argomento sufficiente per parlare del pudore in una società fresca di Sessantotto. Ma il vero indice sulla caduta del senso del pudore furono le parole con cui il regista Bernardo Bertolucci (che vinse l’Oscar) giustificò quello che la Schneider definì uno stupro. In pratica, pare che l’attrice fosse all’oscuro di ciò che stava per subire e che Brando e Bertolucci decisero di procedere a sua insaputa per avere da lei – disse il regista – «una reazione di frustrazione e rabbia». La confessione, con quel tono di mera spiegazione tecnica, fa capire quanto fosse in crisi il “comune senso del pudore”.

Bertolucci si comportò, pur con risultati diversi, in un modo che ha qualche analogia con lo snuff movie, i criminosi film pornografici dove l’attore è la vittima prescelta e ignara che morirà (veramente) per soddisfare le perversioni di chi brama la realtà-verità. L’uomo ridotto a merce di consumo. Confessando una simile scelta Bertolucci stracciava il velo del pudore. Ma di che cosa parliamo? Domanda inutile forse perché siamo una “società spudorata”. Che ha abolito il pudore per affermare la libertà assoluta. Per combattere il controllo dello Stato o del potere sul corpo degli individui (Foucault); così ha fatto cadere anche ciò che di quel corpo era il baluardo. Ma se qualcuno dice che ci sono limiti intangibili ecco che diventa “repressivo” e “fascista” (parola oggi usata con tale leggerezza che i primi a dimostrarsi spudorati sono i politici stessi).

Due saggi usciti quasi in contemporanea, affrontano il tema del pudore alla luce delle trasformazioni sociali e, pur con taglio diverso, svelano come sia urgente ritrovare alcune fondate ragioni del pudore. Liliosa Azara, contemporaneista e studiosa di storia delle donne, dedica oltre duecento pagine a descrivere in I sensi e il pudore (Donzelli, pagine 230, euro 24) che cosa fu la rivoluzione dei costumi in Italia tra il 1958 e il 1968, ovvero «dalla Legge Merlin al Sessantotto», anni di boom economico e della sua lenta crisi che ebbe come conato la protesta giovanile (rivolta in realtà borghese). Di raggio più largo è invece lo sguardo che la storica Marta Boneschi rivolge a Il comune senso del pudore (il Mulino, pagine 204, euro 15), categoria che ha retto, scrive, per cinque secoli, ma oggi rischia di essere estranea a molti. Andy Warhol aveva previsto per tutti 15 minuti di notorietà in Tv.

Oggi assistiamo all’agire compulsivo sui social media: esibizionismo, ostentazione, poca sobrietà, inverecondia (privata e pubblica). Entrambi i saggi s’incontrano sulla sfera sessuale. Corpi nudi, atti spesso osceni in pubblico, esaltazione della propria diversità, pratiche sadomaso nell’immaginario pubblicitario che replicano perversità sempre più diffuse (pride pride e ancora pride, ma spesso non c’è orgoglio di libertà da vantare, c’è avvilimento dell’umano). Non fu la legge Merlin contro le case chiuse a mettere in discussione i vincoli della pubblica decenza; fu – secondo stando alle idee di Marcuse in Eros e civiltà – lo sdoganamento della perversione come mezzo di liberazione dalla società repressiva: e il filosofo tedesco (ma non lui solo) all’epoca ammetteva persino la pedofilia come mezzo per scardinare l’etica dominante.

Max Scheler scrisse sul pudore pagine di notevole levatura, dove dice che esserne privati è un gesto di “de-animazione” che ci spella, ci toglie la nostra seconda pelle. Anni fa, la psicoanalista Monique Selz prese di mira la “dittatura della trasparenza” che domina le nostre società soggette al panopticon (idea di Bentham in funzione carceraria), ovvero la volontà di controllare l’individuo in ogni istante della sua vita (il Grande Fratello orwelliano ante litteram; e si ricordi che la trasparenza fu un mito totalitario del sovietismo). Una società onesta e sana sa – scrive il filosofo ebreo Shmuel Trigano – che nella vita di ciascuno di noi deve rimanere una sfera di “occultamento” dallo sguardo degli altri, perché «senza un’episodica eclissi, senza battito di palpebre né periodico sonno, qualsiasi presenza è impossibile nel mondo». Ma questo contrasta con la cultura vigente: tutto è merce e il consumo va incentivato.

Addio dunque a vergogna e pudore. Ma le cause non sono solo sessuali, c’è prima di tutto l’invidia: quella, disse Lacan, fra fratellini che aspirano al seno materno. Oggi la grande madre da nutrice si è trasformata in produttrice, mater-tech secondo Erich Fromm, e ci spinge a ostentare noi stessi senza freni né veli per avere notorietà e ricchezza. L’impudicizia come consumo.

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