mercoledì 27 aprile 2011
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Senza avventurarsi in complesse tipologie, si può dire che, come per il comunismo novecentesco, anche le interpretazioni del Sessantotto, al di là dei giudizi di valore, si possono raggruppare in due vasti schieramenti. Ci sono coloro che scorgono una piena continuità tra le premesse ideali, gli eventi e le conseguenze storiche. Tali letture lineari, anche di segno opposto, si mantengono alla superficie e hanno come effetto o scopo la banalizzazione del Sessantotto. Più stimolanti sono le interpretazioni che introducono variamente il tema della eterogenesi dei fini, per cui gli effetti sono stati in tutto o in parte diversi e opposti rispetto alle intenzioni. Innanzitutto il Sessantotto, e forse proprio l’anno 1968, segna l’ultimo passaggio del processo di dissoluzione del comunismo sovietico, anche se occorreranno altri vent’anni prima della sua fine. Di contro il comunismo eretico sembra poter rinascere a contatto del movimento di contestazione antisistemica generale. In ogni dove si moltiplicano gruppi politici che si rifanno a una qualche eresia del comunismo novecentesco, ma anche alla più stretta e surreale ortodossia. In realtà sono fuochi di paglia destinati a consumarsi rapidamente. Il comunismo eretico può vivere solo in lotta e polemica con quello ufficiale e statale. In caso contrario viene riassorbito o sopravvive come setta religiosa astorica. Crediamo che il ripiegamento del movimento di contestazione nell’alveo delle varie correnti del comunismo novecentesco costituisca un preciso segnale dei limiti e della inadeguatezza del Sessantotto rispetto al compiersi dei suoi obiettivi. E proprio la scarsa comprensione e conoscenza del socialismo realmente esistente sono la spia di una debolezza strutturale del movimento, dimostratosi incapace di affrontare la micidiale dissimmetria tra le due contestazioni. Nei Paesi comunisti le lotte, in condizioni difficilissime, avevano come obiettivo la democrazia e la libertà. In Occidente la riautentificazione del comunismo, spesso del tutto acritica nei confronti del comunismo sovietico o di sue varianti, attivando processi di identificazione con realtà, come la Cina maoista, di cui non si sapeva nulla. Su un punto cruciale l’universalismo militante del movimento del Sessantotto non regge alla prova della storia. Tra i comportamenti e la cultura politica, la vita e l’ideologia si apre uno iato, che non trova ricomposizione in una sintesi superiore, a meno di appartarsi dal mondo e abbandonare la lotta politica. Bisogna però anche restituire il Sessantotto alla sua epoca, senza apologia e denominazione; da questo punto di vista si può dire che non riuscì a superare i suoi limiti perché esso non fu solo un nuovo inizio, sia pure incerto e carico di contraddizioni, ma soprattutto la fine di una storia, portata a esaurimento nei fatti più che nella coscienza, nei comportamenti e nei sentimenti più che nella riflessione. Nel momento decisivo, la saldatura tra movimento e pensiero critico lasciò il posto al ritorno dell’ideologia vissuta in termini totalizzanti. Ma questa politicizzazione estrema del movimento ne mina la forza e la credibilità, la capacità di diffondersi nella società. Nella divaricazione tra azione controculturale e uso delle armi si consuma l’autoannullamento del movimento, lasciando libero corso alle spinte restauratrici in chiave liberista e neoetnica.Il comunismo eretico trova nel Sessantotto il palcoscenico su cui inscenare un’ultima rappresentazione, emergendo per un breve momento alla luce del sole, ma per il legame ferreo con la sua matrice primonovecentesca non fornisce apporti significativi all’elaborazione di una teoria che sia di supporto nel passaggio dallo stato nascente alla maturità e al radicamento delle trasformazioni indotte dal movimento. Lo stesso si può dire, sia pure sommariamente, per le altre correnti storiche del movimento operaio, da quelle socialiste a quelle anarchiche. Il pensiero critico aveva alimentato e per certi versi anticipato il Sessantotto, da intendersi qui in una accezione ampia che va al di là dell’evento e copre un breve ciclo storico. Eppure anche in questo caso il movimento, nonostante la sua sorprendente ampiezza, non si può dire che abbia alimentato un rinnovamento radicale della teoria politica. Quel che avviene è una sorta di neutralizzazione accademica del pensiero critico, di cui beneficia in primo luogo il marxismo, specie nel caso italiano, con esiti modesti non destinati a passare alla storia. Emergono piuttosto figure dotate di grande energia che attraversano ambiti e istituzioni diverse, in una dimensione pienamente internazionale, saldando l’audacia teorica all’impegno militante, come nel caso di Michel Foucault e di Ivan Illich. Si può ipotizzare che l’impasse in cui è finito il Sessantotto, e che ancora grava sui movimenti antisistemici che di lì derivano, anche quando hanno più lontane origini, dipenda dall’enorme dilatazione dello spazio della politica, rispetto alle società tradizionali, che ha reso quasi immediatamente manifesta una sproporzione incolmabile tra gli obiettivi e i risultati, da cui il rifugio nella privatizzazione se non nella servitù volontaria. Venuta meno l’azione permanente del movimento, la democrazia diventa ostaggio di forze che governano la paura e l’impotenza e si riduce a vuoti rituali, che non modificano la riproduzione dell’esistente. Al contrario il movimento di contestazione e quelli che ne sono seguiti, minoritari ma non privi di seguito e di influenza, miravano a una sorta di democrazia assoluta.Le difficoltà di una costante mobilitazione democratica, utopistica ma tutt’altro che priva di motivazioni e forza, appaiono evidenti se si prendono in considerazione i due movimenti che dopo il Sessantotto si sono diffusi nei più diversi contesti, senza più avere come avveniva in passato un centro principale di irradiamento, superando per la loro stessa natura i confini nazionali e statali, al cui interno ha finito per ridursi il movimento dei lavoratori nonostante le sue origini programmaticamente internazionaliste. Il movimento femminista, centrando l’attenzione sulla dimensione antropologica, di genere, sulla differenza sessuale, la singolarità, i sentimenti, le passioni, il corpo, ha radicalizzato il discorso critico e analitico, rompendo con le tradizioni emancipazionistiche ed egualitaristiche, ma tutto ciò nei fatti ha prodotto un indebolimento della sua forza e incisività, se non la scelta esplicita di abbandonare la politica, irrimediabilmente perduta. L’ecologismo, per parte sua, è attraversato da contraddizioni irrisolte, che derivano dalla sua collocazione al di là della destra e della sinistra, quindi al di fuori delle coordinate di fondo della politica otto-novecentesca.
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