venerdì 6 ottobre 2023
Il medievista Todeschini aggiorna un suo studio ormai classico e cerca di mostrare come già nel pensiero del Poverello d'Assisi la ricchezza non fosse peccato se il denaro lavorava per il bene comune
Giotto. “San Francesco rinuncia ai beni terreni”, 1295-1299 circa. Assisi, Basilica Superiore

Giotto. “San Francesco rinuncia ai beni terreni”, 1295-1299 circa. Assisi, Basilica Superiore - Archivio

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Nel 2004, Giacomo Todeschini, già professore ordinario di Storia medievale all’Università di Trieste, pubblicava, per i tipi della casa editrice il Mulino, un volume destinato a divenire, a suo modo, un classico della storiografia francescanista: Ricchezza Francescana. Dalla povertà volontaria alla società di mercato (pagine 216, euro 13). La sua recente riedizione mostra quanto l’apparente ossimoro contenuto nel titolo cogliesse nel segno. Nell’ambito di quattro agili ma densi capitoli, dedicati rispettivamente al contesto socioeconomico dell’Occidente europeo (Un’epoca di sviluppo e di organizzazione), alla novità di Francesco (Francesco e i francescani: la scoperta dell’altrove), alla figura del mercante (L’uso del mondo: da Narbonne a Genova) e allo sguardo francescano sulla società (Il mercato come forma della società: da Barcellona a Siena), lo studioso mostrava come il concetto francescano di “ricchezza”, più ancora di quello di “povertà”, abbia avuto un ruolo fondamentale nel plasmare le «categorie basilari del modo economico di ragionare» europeo.

Negli ultimi vent’anni, le tesi di Todeschini sono state lungamente discusse. Non vi sono dubbi, ormai, sulla rilevanza della riflessione minoritica, capace di distinguere tra proprietà, possesso temporaneo e uso dei beni economici, in grado di vedere nel libero scambio, più che un mezzo d’oppressione per i ceti meno abbienti, un collante sociale. Tale riflessione aveva precise ragioni storiche. L’impetuosa crescita demografica che caratterizzò l’Europa nei secoli posteriori al Mille contribuì non poco alla moltiplicazione fisica del denaro in forma di moneta, dando avvio, al contempo, a un rinnovato «modo di “ragionare” tanto politico quanto economico». Tale mutamento spinse la Cristianità a ricercarne la necessaria legittimazione nei Padri dei primi secoli. Agostino parlava del Cristo come d’un “buon mercante”, che aveva acquistato la Salvezza a prezzo della propria vita terrena. Per altri versi, l’universo benedettino, basandosi su passi come Mt 25,14-30 – la celebre parabola dei talenti –, invitava a non tesaurizzare i beni economici ma a farli fruttare. Tali interpretazioni informarono gli scritti di pensatori importanti, da Pier Damiani a Bernardo di Clairvaux, da Pietro di Blois a Goffredo di Vendôme, per cui il buon sovrano, il buon ecclesiastico, il buon nobile erano coloro che bene sapevano amministrare le proprie ricchezze. A ciò si accompagnava la condanna dell’usuraio, la cui attività d’accumulo risultava vana; il mercante, al contrario, si privava del proprio per ottenere un guadagno maggiore. Egli, pertanto, assomigliava al santo – il caso di Omobono da Cremona, santificato nel 1199, fece scalpore –, che non disdegnava privarsi di tutto, vita compresa, per un fine superiore.

È in questo contesto, dunque, che si colloca la rinuncia ai beni operata da Francesco, la cui critica radicale nei confronti del denaro parve precorrere i tempi. Certo, la lontananza fisica dalla moneta, raccomandata ai frati – non ultimo, nella regola del 1223 –, avrebbe rappresentato un problema. Morto l’Assisiate, fu necessario stabilire in che maniera andasse inteso il concetto di “povertà” da questi propugnato. I membri dell’Ordine, non potendo possedere nulla «de facto», si trovavano nella condizione di dover trovare il modo di sostenersi materialmente. Uomini come Bonaventura da Bagnoregio, Ugo di Digne, Giovanni Peckham, Tommaso di York, Salimbene da Parma o Pietro di Giovanni Olivi rifletterono a lungo sui concetti d’uso e possesso, giungendo a sostenere l’utilità della povertà volontaria per la cosa pubblica. Una soluzione utopica, se vogliamo, che si accompagnava alla magnificazione della figura del mercante, protagonista laico della “ricchezza transitoria”, e allo “sdoganamento” della validità etica del prestito a interesse, qualora – beninteso – fosse stato possibile dimostrare le buone intenzioni del prestatore e il suo svantaggio nel privarsi di quanto prestato. Nel corso del Quattrocento, tale riflessione avrebbe condotto ai cosiddetti Monti di Pietà, nati per erogare prestiti a interessi bassi o nulli. Agendo per la pubblica utilitas, i prestatori non violavano la visione etica cristiana, moltiplicando, anzi, la possibilità di sovvenzionare i poveri.

Progressivamente, dunque, la riflessione s’estese al piano generale, spingendo a interrogarsi circa il legame tra il valore delle cose e la loro scarsità (concetto estendibile alle persone stesse e, a maggior ragione, ai frati, la cui azione, se remunerata, avrebbe richiesto una quantità infinita di denaro; meglio valeva, dunque, che restasse gratuita, così da non svalutarla…), la formazione dei prezzi, la natura dei contratti, l’importanza degli investimenti. La ricchezza individuale, lungi dall’essere strumento del demonio, andava considerata positivamente se capace di contribuire al bene comune. L’accumulo sterile e la tesaurizzazione improduttiva, invece, erano da condannarsi. Il denaro, insomma, era fatto per circolare: esso restava un’unità di misura. Potremmo dire, una visione laicamente moderna (ma non contemporanea, forse…), se non ci trovassimo in pieno Medioevo! Secondo Todeschini, l’apporto del francescanesimo alla teoria economica sarebbe stato rivoluzionario, capace di mandare in soffitta quello “spirito del capitalismo” di weberiana memoria solitamente associato all’universo protestante (« Povero Max Weber!», leggiamo). Certo, non è intenzione dello studioso cercare dei precursori di Adam Smith. I francescani non hanno inventato il capitalismo; hanno ragionato, piuttosto, sulla società, in continuità con la riflessione economica degli antichi. Spinti – naturalmente – dal rigorismo di Francesco stesso, “mercante del regno” (è il titolo, questo, della biografia di Alfonso Marini, edita per Carocci nel 2015, in riferimento alla parabola di Mt 13, 45-46). Come non chiedersi, dunque, se nell’insegnamento francescano è possibile ancora scorgere una via plausibile per evitare che tutto si trasformi in «pianto e stridore di denti»?

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