domenica 19 giugno 2022
Lo scrittore irlandese nei suoi romanzi mette al centro giustizia e riconciliazione: «Ricomporre il mondo è missione dei giovani Ma la scuola va rivoluzionata»
Colum McCann a Udine per il premio Terzani al Festival vicino/lontano

Colum McCann a Udine per il premio Terzani al Festival vicino/lontano - Luca D’Agostino Phocus Agency

COMMENTA E CONDIVIDI

Udine Vincitore del National Book Award per Lascia che il mondo giri (Feltrinelli, pagine 464, euro 14), autore dell’acclamato Apeirogon, con il quale ha vinto di recente il Premio Terzani a Udine, Colum McCann è uno dei narratori più noti e apprezzati del nostro tempo. Un autore che, anche per la sua origine (l’Irlanda), non ha mai messo tra parentesi la dimensione spirituale nei suoi romanzi.

Il Parents Circle, il gruppo di genitori israeliani e palestinesi che hanno perso i propri figli e che testimoniano insieme la necessità di superare l’odio, protagonisti di Apeirogon, veniva citato dal cardinale Martini come un esempio di ricomporre il conflitto attraverso l’incontro con il dolore dell’altro: diceva che di fronte a tutto questo al cristiano spettava il compito di 'intercedere', 'camminare attraverso' le parti in guerra. Una missione possibile?

«Io credo di sì. La prima cosa che dobbiamo fare infatti è quella di imparare ad ascoltare. Senza avere l’idea di aver qualcosa di predeterminato in testa di fronte a situazioni come quella in Israele e Palestina. Il problema vero è sapere se si è aperti alla comprensione oppure chiusi nei propri clichè. Non è questione tanto di perdono, quanto di giustizia rispetto alla verità dei fatti. È molto difficile affermare di sapere quale sia la verità. Camminare in mezzo, come chiedeva Martini, significa implicarsi nell’ascoltare. Ovvero, lasciare che le persone parlino e raccontino le loro storie, imparando ad ascoltarle. Io credo che oggi dovremmo rifuggire dall’avere certezze assolute: secondo me è molto più interessante avere delle incertezze perché in tal modo ci mettiamo in un atteggiamento di ascolto e ci viene data la possibilità di imparare».

Il teologo Joseph Metz parlava dei racconti 'pericolosi', capaci di sovvertire l’ordine delle cose. È per questo che lei ha concluso il suo romanzo I figli del buiocon una parola fortemente teologica, 'resurrezione'?

«Certo. Io credo nella resurrezione perché credo nella possibilità di un cambiamento. Come diceva Antonio Gramsci, esistono il pessimismo dell’intelligenza e l’ottimismo della volontà. Il pessimista ci dice che il mondo è nero, che la vita fa schifo e che la società va a roto- li. Quale è la novità in questo? Invece l’ottimista è capace di rivelazione: non c’è nessuna rivelazione nel pessimismo, mentre l’ottimista apre uno squarcio, riconosce - per citare Leonard Cohen - che nelle cose c’è sempre una crepa da dove entra la luce. Dobbiamo essere capaci di riconoscere questo futuro nuovo. Siamo chiamati ad avere speranza anche di fronte a tutte le situazioni più disperate. Il cinismo non porta da nessuna parte. Partiamo dal territorio del cuore dell’uomo, dimentichiamo per un attimo la politica: ripartiamo dal cuore. L’impossibile diventerà possibile».

Lei ha vinto il premio Terzani. Un giornalista che, in un’intervista pubblicata su questo giornale, disse che quando arrivava in un posto nuovo la prima persona che cercava era un gesuita. Perché il gesuita - diceva - entra in una cultura altra in punta di piedi, la studia, ne conosce la lingua e i costumi, e solo dopo annuncia il Vangelo...

«Quando vai in un posto nuovo, la prima cosa che devi fare è dire: Non conosco questo posto. E devi farlo con umiltà, ammettendo che devi imparare dove sei. Anche Daniel Barrigan, il gesuita cui mi sono ispirato per Lascia che il mondo giri, aveva questo atteggiamento. Questo è un lavoro molto profondo. Ed è lo stesso lavoro che fanno molti giornalisti, che nel mondo testimoniano e raccontano quanto vedono e osservano. Proprio in un’epoca in cui il potere cerca di strumentalizzare e manipolare la realtà. Invece l’atteggiamento giusto è quello di dire, di fronte alla novità, "non so, non conosco, e anch’io ho bisogno di imparare"».

Tutto questo ha un riverbero nel suo lavoro di scrittore?

«Sto lavorando a un progetto su James Foley, il giornalista americano ucciso dal Daesh in Siria, che mi viene raccontato dalla madre Diane, una donna eccezionale. Ebbene, anche lui aveva un atteggiamento simile. Guarda caso, si era formato alla Marquette University, un ateneo di gesuiti. Se potessi tornare a scuola, vorrei frequentare una scuola di gesuiti, sebbene sia molto debitore della mia formazione presso i Fratelli delle scuole cristiane in Irlanda. Giornalisti e insegnanti, del resto, sono due delle professioni più bistrattate oggi e meno considerate socialmente: invece sono professioni centrali per la società di oggi, sopratutto gli insegnanti, spesso sottopagati e non riconosciuti - parlo per esperienza, mia moglie è insegnante. Da parte mia, se avessi trent’anni di meno, oggi sarei in Ucraina per raccontare quello che là succede...»

Di lei rimane sublime il racconto della fede di padre Corrigan, il protagonista gesuita di Lascia che il mondo... Come far sì che Dio sia credibile anche oggi, dopo una pandemia e una guerra nel cuore dell’Europa 'cristiana'?

«La teologia si può scrivere semplicemente su una paginetta di quaderno. Io sono molto interessato alle persone che cercano di comunicare con Dio. Sono cresciuto come cattolico, ho ricevuto un’educazione cristiana, ho un grandissimo rispetto per papa Francesco e anche per quanti hanno avuto una relazione difficile con Dio, ma possiedono una fede fondamentale nella giustizia. Nei miei libri ho cercato di ascoltare il cuore delle persone che cercano Dio e una giustizia su questa terra, non solo in una vita soprannaturale. Per questo, appunto, ammiro moltissimo papa Francesco. Perché è una persona che cerca di dare una possibilità all’impossibile. A me oggi interessa tantissimo quanti cercano di riparare il mondo: guardiamoci intorno, il mondo è veramente rotto, distrutto, a pezzi. E quello che ci serve è rimettere insieme i cocci, ricucire, riannodare fili dispersi. Ecco il nostro compito! Specialmente i giovani hanno questa missione: ricomporre il nostro mondo infranto in mille pezzi. Apeirogon è un po’ questo».

Dove vede soprattutto questo bisogno di ricucitura?

«Intravedo una vera e propria pandemia di solitudine tra i giovani di oggi. Questo dovrebbe essere il lavoro della teologia: non parlare di come cambiare questa solitudine, ma effettivamente abitarla. E qui penso che il ruolo del racconto delle storie di vita diventi essenziale. Dobbiamo rivoluzionare completamente il modo in cui abbiamo organizzato la scuola. Dobbiamo partire dai fatti: certo, esistono i fatti 'mercenari', quelli stravolti dalla manipolazione della propaganda. Ma esistono i fatti i veri, quelli che sono i mattoni del mistero. E in questo sono decisivi gli incontri che facciamo nella vita. Io sono le persone che ho incontrato nella mia vita, quelle che mi hanno reso quello che sono. Al contempo, sono quello che sono grazie alle scelte fatte: se fossi rimasto in Irlanda, invece di partire a 21 anni verso New York, non avrei visto il mondo e non avrei aperto i miei orizzonti. Ma quello che ho vissuto fino a 21 anni, però, non me lo toglie nessuno. E in tutti i miei romanzi c’è sempre questa 'irlandesità', quel modo con cui alla fine fine faccio i conti con il mondo da cui provengo».

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: