domenica 16 aprile 2023
Nel volume "Ispezioni della terribilità", tra l'«ossessione» dello scrittore per la giustizia e i dubbi sul pentitismo emergono il dramma del giudicare e le sue storture, come nel caso Tortora
Lo scrittore siciliano Leonardo Sciascia

Lo scrittore siciliano Leonardo Sciascia - Wiki Commons

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«La scelta della professione del giudicare dovrebbe avere radici nella ripugnanza a giudicare» scrive nel 1986 Leonardo Sciascia. Il primo impulso, insomma, anche per un giudice dovrebbe essere: «Preferirei di no». È una ripugnanza che sembra provare anche Rouault quando ai primi del Novecento dipinge tribunali e giudici con volti che sono maschere terribili amministratori di una giustizia che commercia con egli inferi. Per Sciascia era una “ossessione”, come scrisse, perché in ogni tribunale si nasconde un germe d’ingiustizia potenziale, che si radica in un passato che sembra discendere in qualche modo dalle logiche dell’Inquisizione e si estende fino al secolo dei regimi totalitari, legando insieme tortura e delazione. Esiste, indubbiamente, la percezione di un potere “terribile” associato al giudizio: il Dio dell’Antico Testamento è un Dio, in certi momenti, “terribile” ma giusto. Recentemente si è discusso molto anche di “ergastolo ostativo” e di 41bis in relazione allo sciopero della fame dell’anarchico Alfredo Cospito che rifiuta per sé e per altri il carcere duro. Il potere dei giudici e del sistema penale, attraverso una crescita bulimica delle leggi, sembra a volte tracotante; d’altra parte, è indebolita nei cittadini anche la certezza della pena e questo ha creato – negli ultimi trent’anni, in particolare – una incredulità verso il sistema di diritto, fino alla perdita reale della fede nell’idea che le leggi siano uguali per tutti.

In Il cavaliere e la morte Sciascia scriveva che «la sicurezza del potere si fonda sull’insicurezza dei cittadini». C’è qualcosa di tremendo nel pensiero che qualcuno sia chiamato a giudicare un altro, drammatico come l’idea che il chirurgo può decidere col suo operato della vita e della morte del paziente. Per entrambi è possibile l’errore (se non peggio), dunque ci vuole umiltà, onestà, controllo, mentre spesso è il contrario. S’intitola Ispezioni della terribilità. Leonardo Sciascia e la giustizia il volume curato da Lorenzo Zilletti e Salvatore Scuto edito da Olschki (pagine 284, illustrate, euro 35) che viene presentato nel pomeriggio di lunedì 17 aprile (ore 14,30) in un convegno alla Bicocca di Milano, cui partecipano gli stessi curatori e alcuni esperti e autori di saggi compresi nel libro. Come notano a più riprese gli studiosi, quella della giustizia che sbaglia o, addirittura, è corrotta, presuntuosa, omertosa, se non addirittura inadeguata a compiere il proprio ruolo, era un “fil rouge” nei romanzi e nei saggi di Sciascia, fin da quello sul processo a Caterina Medici ( La strega e il capitano). Zilletti evoca l’esempio civile di Camus, altro scrittore pronto a denunciare l’abuso e le imposture dei poteri della società cosiddetta democratica. Viene evocato nel libro anche il caso di Enzo Tortora, che potrebbe essere preso come lo spartiacque dopo il quale nulla fu più come prima nella fiducia dei cittadini italiani verso i magistrati.

Fin dal tempo del Concilio di Trento e dell’Inquisizione la delazione era il completamento dell’itinerario di espiazione del colpevole, attraverso la tortura tamquam cadaver (come fosse una salma, in quanto già condannato a morte). Sciascia fin dal 1987 prese posizione contro il “pentitismo” e i “professionisti dell’antimafia” (sul “Corriere”, recensendo il saggio di Duggan La mafia durante il fascismo), accusa che destò furibonde levate di scudi. E sui pentiti sosteneva che gli assassini – anche nel terrorismo – solo per aver collaborato con la giustizia scontavano pene irrisorie, mentre chi aveva compiuto azioni dimostrative senza versare sangue si vedeva comminate pene enormi. Viene da pensare al caso clamoroso di Marco Barbone, che uccise Walter Tobagi e a cui vennero inflitti otto anni e mezzo ma fu subito scarcerato col beneficio della libertà condizionata; viceversa, la terrorista di Comiso, Laura Motta, senza macchiarsi di sangue e dopo essersi dissociata (ma non pentita), prese oltre cinque anni di carcere; poi scarcerata, e rifattasi una vita come psicoterapeuta, nel 1987 venne arrestata ancora per i medesimi fatti, trovando l’appoggio di Sciascia nella difesa. «Fare i nomi dei sodali, di complici è sempre stato dai giudici inteso con un passar dalla loro parte» scrive Sciascia in La strega e il capitano, diventare uno strumento della magistratura.

Trovandosi in buona compagnia con Montaigne, la coscienza pessimista di Sciascia, la sua «antropologica sfiducia nell’umano giudizio» (Miletti), in A futura memoria porta questa costatazione: «I cortei, le tavole rotonde, i dibattiti sulla mafia, in un paese in cui retorica e falsificazione stanno dietro ogni angolo, servono a dare l’illusione e l’acquietamento di far qualcosa: e specialmente quando nulla di concreto si fa». Sciascia mirava a «far progredire la cultura collettiva dei diritti» (Vincenzo Maiello), ma anche a prevenire le cadute nell’errore giudiziario come già per il “Caso Calas” su cui Voltaire scrisse le sue tesi sulla tolleranza, da cui la questione del sistema garantista fino alla prova di colpevolezza. Ed ecco la centralità nel discorso di Sciascia sulla Colonna infame: «Occupandosi di giustizia e di diritto, Sciascia ha cambiato la lettura critica del romanzo di Manzoni», così che la Colonna infame è, piuttosto, «l’ultimo capitolo del romanzo» (Nigro): le analogie con Piazza, il presunto untore che finì per accusare falsamente altri sotto le minacce della tortura in cambio dell’impunità, sono ancora prossime a noi.

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