domenica 8 marzo 2009
In «Gran Torino» è un rude veterano del Vietnam che impara la tolleranza dai suoi vicini asiatici. Eroe opposto all’ispettore Callaghan, riscopre le radici cattoliche
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«No, non ho cercato affatto que­sto ruolo, ma non si può dire che ce ne siano molti per quelli della mia età». Così Clint Eastwood dice del protagonista di Gran Torino (nelle sale italiane il 13 marzo), Walt Kowalski che, dopo aver lavorato in una fabbrica di auto­mobili al termine della guerra in Corea, si ri­trova solo. La moglie è appena morta. Du­rante la cerimonia dell’addio lui, in piedi, ha salutato amici e parenti. Ma lo sbattere del­le ciglia rivela la sua indifferenza per le pa­role del giovane prete e il disprezzo per gli altri, compresi figli e nipoti. I quali, a loro volta, non sono migliori di lui e, con la scu­sa di farlo star meglio, vogliono chiuderlo in una casa per anziani. Kowalski ha scelto un altro modo per elaborare il lutto. Sta sul ter­razzino della sua casa , in un quartiere che una volta era borghese e adesso è invaso da 'cinesi'. Beve birra, sfoglia il giornale, guar­da con disprezzo i vicini, una famiglia della comunità Hmong, originaria del Laos. Ven­gono da lontano. Durante la guerra del Viet­nam hanno aiutato gli americani e questo consente loro di farla da padroni in casa d’al­tri. Visi gialli come quelli che lui ha combat­tuto in Corea. Non gli piacciono le loro fe­ste, la disistima che la vecchia di casa gli ma­nifesta, l’'aggiornamento' dei loro parenti che, in America, pare abbiano imparato so­lo a dire parolacce, a insultare le ragazze, a prendere di mira il cugino, il giovane Thao, che considerano una femminuccia. Per met­terlo alla prova, lo costringono a tentare di rubare la macchina Gran Torino, un cime­lio che, quasi per avere compagnia, Kowal­ski ha tirato fuori dal garage. E guarda men­tre ripensa al passato, mentre insulta il sa­cerdote che, avendolo promesso alla moglie defunta, va a trovarlo e gli chiede addirittu­ra di confessarsi. Kowalsky non è un uomo di fede. Vive di ran­cori. Eastwood lo considera un pazzo spe­cie quando sorprende Thao nel tentativo di rubargli la Gran Torino. I vicini gli chiedono scusa e, per sdebitarsi, gli mandano Thao per aiutarlo e lo riempiono di cortesie. Kowalski resiste. Ma, a poco a poco, il bru­sco rapporto fra lui e il ragazzo migliora. Kowalski accetta di partecipare a una festa dei vicini e deve riconoscere che non sono proprio cattiva gente specie la bella sorella del ragazzino, l’unica in famiglia a desiderare di integrarsi nella comunità americana. Il legame tra l’anziano e il giovane è analizza­to con osservazioni giustissime da Ea­stwood. Con il suo fare rude Kowalski aiuta Thao a convivere con se stesso, lo presenta ai pochi amici che gli sono rimasti, gli tro­va un lavoro. Ma la gang del cugino non de­siste: aggredisce il ragazzo, violenta la gio­vane. Kowalski non si ribella subito. Ripen­sa al desiderio della moglie e si confessa al giovane prete, uno che – pensa – non ha nes­suna esperienza di come va il mondo. E, di­sarmato, si presenta davanti alla casa del cu­gino. Clint Eastwood, invecchiando, è maturato. Si è liberato del razzismo del suo vecchio personaggio, l’ispettore Callaghan. Ea­stwood spiega: «Walt è chiaramente un raz­zista, ma impara poco a poco la tolleranza attraverso le sue relazioni forzate con la fa­miglia Hmong. Tutto cambierà quando, do­po aver aiutato il loro figlio adolescente Thao da una gang asiatica, scoprirà la ricono­scenza e la solidarietà di questo popolo». È riaffiorato nel regista ciò che era latente: un rimosso cattolicesimo che, adesso, è diven­tato l’asse portante del suo brusco Kowalski. E Gran Torino, studio profondo di psicolo­gie e di ambienti, racconto dal ritmo sicuro, può definirsi un film cristologico che gli spet­tatori finiscono per amare profondamente portandolo, come riconosce il regista, al suc­cesso (fino ad ora ha incassato solo negli U­sa oltre 140 milioni di dollari).
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