mercoledì 26 agosto 2015
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Roberto Citran è nato a Padova nel 1955, inziando la sua carriera di attore a teatro. Nel 1986 ha debuttato nella fiction con Parole e Baci, lavorando accanto a Ricky Tognazzi, che lo vorrà poi nel cast di molti suoi film da regista. Da allora è diventato uno dei volti più popolari del cinema e della televisione italiana, spesso in ruoli da comprimario. Importante il sodalizo con l’amico e concittadino Carlo Mazzacurati che gli valse la Coppa Volpi come miglior attore non protagonista al Festival di Venezia per il film Il Toro di Mazzacurati (1994). Con lui girò anche Il prete bello e Vesna va veloce. Fra i tanti film La tregua di Rosi, El Alamein di Monteleone, Io sono Li di Segre, Zoran, il mio nipote scemo di Oleotto, Il mandolino del capitano Corelli di John Madden. Tante anche le fiction da Medicina generale a I Cesaroni, Ragion di stato, Don Milani, Don Gnocchi, Papa Luciani e Il Papa Buono. Quest’autunno tornerà su Disney Channel con la seconda serie della sit com di successo Alex and Co. nel ruolo di un preside. «Tanta gente mi ferma e mi dice: «Complimenti, lei mi piace tantissimo. Ma come si chiama?». Ci ha fatto l’abitudine e ci ride su Roberto Citran. A parte il protagonista cucito a pennello su di lui ne Il prete bello dal compianto amico Carlo Mazzacurati («abbiamo iniziato a lavorare insieme a 20 anni nella nostra Padova sognando il cinema» ricorda), questo attore riservato ha prestato il suo volto, lungo e gentile, quasi sempre a ruoli da comprimario di lusso. La popolarità gli arriva da decine di film italiani e a tante fiction, fra cui Il Papa Buono in cui indossava i panni di monsignor Capovilla.  «Una responsabilità enorme – ricorda Citran –. Accettò subito che lo incontrassi a Sotto il Monte, prima di girare la fiction. Le suore mi fecero notare che ero troppo alto per interpretarlo. Uno degli incontri più belli della mia vita con un uomo di una lucidità, di una capacità unica di interpretare il mondo e la realtà» Ora invece, Citran torna al teatro: sarà un maggiore dal volto umano durante la Prima Guerra Mondiale in Questa è la mia patria- Racconti della Grande Guerra scritto e diretto da Francesco Sala che debutta il 28 agosto al Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo. Insieme a lui dieci giovani attori attori neodiplomati provenienti da tutta Italia daranno voce e vita, con i loro accenti, alle lettere dal fronte.

I giovani attori protagonisti con Citran di "Questa è la mia patria"
Citran, non è la prima volta che lei indossa la divisa... «Certo, ma si trattava sempre di film sulla Seconda Guerra Mondiale, come La tregua di Rosi, Il mandolino del capitano Corelli di John Madden, El Alamein di Enzo Monteleone. Questa è stata un’occasione anche per me per coprire una lacuna scolastica sulla Prima Guerra Mondiale». Lei cosa ha scoperto che non sapeva? «Ho scoperto soprattutto il disprezzo verso i soldati semplici da parte delle alte gerarchie militari. Lo stesso descritto da Uomini contro di Rosi tratto da Un anno sull’altipiano di Lussu. Il nostro spettacolo si focalizza sul momento in cui l’atteggiamento cambia. Dopo la disfatta di Caporetto il generale Cadorna viene sostituito dal generale Diaz che dà ordine di superare le distinzioni fra ufficiali e soldati semplici. Cadorna utilizzava i soldati come numeri. Diceva con grande cinismo che nella guerra di trincea era più facile sostituire gli uomini che i mezzi». E con Diaz cosa cambia? «Occorreva motivare gli italiani dopo la sconfitta, trasmettere fiducia ai soldati. Diaz ordina agli ufficiali di adottare un atteggiamento più umano, vengono meglio regolati i turni in trincea, migliora il rancio. Non più come prima quando si bloccava l’invio dei pacchi viveri ai nostri 300mila prigionieri lasciandoli morire di fame perché considerati dei traditori o si procedeva a fucilazioni arbitrarie». Come racconterete tutto ciò nello spettacolo? «Lo faremo rivivere al pubblico come in un film. Io sarò la voce narrante, faremo il riassunto dall’anno precedente all’entrata in guerra dell’Italia, quando era ancora divisa fra interventisti e no, fino ad arrivare al 1917, a Caporetto. Gli attori racconteranno invece il dopo Cadorna, su come vennero accolte dalla truppa le disposizioni di Diaz, come venne infuso in loro il coraggio fino a ribaltare le sorti della guerra a Vittorio Veneto». Cosa emerge da quelle lettere? «Attraverso le paure, i timori, la sofferenza, la lontananza, la paura della morte raccontata alle famiglie viene fuori l’umanità di persone che si sentono catapultate in una situazione paradossale. L’uomo non è fatto per sparare, ma per vivere in pace e serenità». Ci racconta qualche episodio? «C’è l’entusiasmo del soldato interventista, con la classica ingenuità e ribellione di chi ha 20 anni e invoca la guerra senza sapere neanche che cosa è. Oppure il coraggio del capitano Martini che tenne posizione per due anni in una cengia a 2000 metri che ora porta il suo nome e che riuscì a salvare il suo plotone di alpini facendoli cantare a squarciagola per indicare la loro posizione ai rinforzi. È lo spirito che ha salvato l’esercito, un esercito fatto di contadini e operai. Se non infondi loro un obiettivo comune e il coraggio, loro non ti seguono». Questo spettacolo sarà un inno alla pace? «Resto convinto che lo scopo dell’uomo sia vivere in pace. Me lo ha confermato l’amicizia con Mario Rigoni Stern. Scrissi con lui lo spettacolo teatrale Sentieri sotto la neve dove raccontava il campo di concentramento nazista, l’adesione alla Repubblica di Salò prima e, poi, la sua fuga durata un mese. Un racconto epico, una metafora della vita. Ti veniva voglia di abbracciarlo: era come abbracciare un albero, come abbracciare le Dolomiti. Aveva una solidità e un calore che ti facevano capire come aveva fatto a resistere». Vivere in pace... In tanti oggi arrivano da noi, rischiando la vita, per fuggire dalle guerre. Lei da veneto come la vede? «Non sopporto più le strumentalizzazioni politiche. La parola profugo in casa mia è di casa, così si sentivano i miei, veneziani, quando vennero sfollati durante la guerra. Quando la gente si allontana dal proprio Paese lo fa perché scappa dalla fame, dal bisogno, dalla paura. Io ho pure girato un documentario sull’emigrazione dei veneti negli anni 30. Io sono nato in un Veneto tollerante, dove la mia estrazione cattolica mi ha insegnato il rispetto del prossimo. Oggi non ho il dono della fede, ma sento nostalgia per quel modello di vita e mi dispiace che il Veneto sia identificato col troglodita che usa la clava della violenza gratuita. C’è un’ignoranza totale su chi sono queste persone. Ma la gente non ha voglia di pensare e, come dice Hannah Arendt, quando deleghi a un altro il tuo pensiero, la differenza tra bene e male non c’è più. Invece si va verso una società multietnica, occorre fare in modo che queste differenze convivano nel miglior modo possibile. Mazzacurati la pensava così anche lui: l’uomo è sempre andato a cercare il suo angolo di felicità».
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