venerdì 6 ottobre 2017
Nuova indagine degli storici Falciani e Natali sul XVI secolo dopo le rassegne su Bronzino, Rosso e Pontormo. La volontà di abbattere lo steccato che separa due epoche moderne
Dettaglio della «Visione di san Tommaso d'Aquino» dipinta da Santi di Tito

Dettaglio della «Visione di san Tommaso d'Aquino» dipinta da Santi di Tito

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Quando si tenta una nuova strada è sempre bene ripetere i fondamentali, come si suol dire. Così Carlo Falciani e Antonio Natali ce li rammentano subito con cinque capi d’opera che portano la firma di Michelangelo ( Dio fluviale), Andrea Del Sarto ( Compianto), Pontormo ( Deposizione), Rosso Fiorentino ( Deposizione) e Bronzino ( Cristo deposto). Ci sono anche il Mercurio di Baccio Bandinelli e l’Apollo e Giacinto di Cellini. En plein. Come dire, questa serie iniziale mette insieme tutti i codici di cui tener conto per comprendere il durante e il dopo del Cinquecento fiorentino che, come i due curatori avevano già fatto capire con le mostre dedicate a Bronzino e a Pontormo e Rosso, si riallaccia al Seicento proprio mettendo sotto i nostri occhi quelle soluzioni che Caravaggio compulsò certamente viaggiando al seguito del cardinal Del Monte nella patria dei Medici.

Ma Falciani & Natali, premiata ditta, ci avvisano anche di due cose, introducendo il catalogo della mostra edito da Mandragora: essa vuole essere, è, la continuazione e in un certo senso l’approdo delle due già citate, e intende allargare lo sguardo sul contesto cui le teste di serie hanno preparato la strada; per questa ragione, il visitatore non si meravigli, dicono, se si troverà a «cospetto d’artefici che non gli erano stati lontanamente ventilati neppure sui banchi di scuola ». Avvertenza da veri signori della storia dell’arte che parlano ai competenti ma anche ai comuni mortali (intenzionalmente: infatti premettono di dare spazio alla «lettura dei contenuti e delle trame» che al grande pubblico interessano certo di più della filologia; e su questo tornerò prossimamente parlando della maramaldesca mostra di Caravaggio apertasi la scorsa settimana a Milano).

Ora qui si può persino spalancare l’occhio, come sbalorditi, al pensiero che il grande pubblico non soltanto non abbia mai risentito a scuola delle brezze anche lievissime di tanti più piccoli maestri, ma che persino su quelli grandi sia per così dire abbastanza ferrato da sapere cosa guardare e come vedere. Saper vedere antica questione... È sempre più difficile trovare questo doppio registro nelle mostre che vengono organizzate negli ultimi decenni in Italia: o sono pensate in funzione dei saggi che scrivono i curatori (quindi per ambizione intellettuale); oppure sono dozzinali tentativi di fare cassetta, dunque operazioni strettamente commerciali (l’industria culturale fa il suo mestiere, per cui nessun anatema, solo l’invito a diventare più esigenti e a disertare quello che è mero specchio per allodole). Può sembrare che divaghi, ma quando si dice che manca un sentimento comune, di cultura e storia condivisa, del nostro essere italiani, certo la colpa è da imputare anche al sistema scolastico che non è più capace di far comprendere ai giovani che cosa c’è scritto di loro nel passato; e in particolare che cosa di loro può dire l’arte.

E vengo alla mostra, sulla quale si può parlare soltanto bene. Il fondale su cui si proietta è quello dell’epoca della Controriforma e delle sue norme in materia d’arte sacra: «Che fin da subito segnarono la concezione delle grandi pale d’altare e che mutarono il volto delle chiese fiorentine, in un programma grandioso che aveva il suo corrispettivo civile nella decorazione dei luoghi del potere mediceo imperniata sull’agiografia militare» scrivono i curatori. Chiediamoci perché fu possibile questo binario a «convergenza parallela»? L’espressione è entrata nel nostro lessico come gioco linguistico di un politico, ma oggi possiamo dire con certezza che quel binario se non è morto, certo non è molto frequentato. Né la Chiesa né lo Stato sono protagonisti di una promozione dell’arte che interpreti ed esprima un sentire condiviso. Nel Cinquecento invece era così. Manca oggi quella varietà e ricchezza linguistica che non è la parola del singolo artista, ma la lingua di un popolo o una nazione. E questo ci faccia riflettere.


Andrea del Sarto è uno dei maestri che anticipano il nuovo corso dove la Chiesa, col Paleotti, detterà poi le regole dell’arte sacra. Come nota Natali a proposito del Compianto detto anche Pietà di Luco (dal nome del paesino dove il pittore si era rifugiato durante la peste del 1523), vi si riflette la questione fondamentale dell’Eucaristia alla luce della diffusione della «calamità luterana». Sono anni nei quali vedono la luce la Deposizione di Pontormo e il Cristo fra gli angelidi Rosso. E fa bene Natali a notare che quella di Pontormo «come “deposizione” può essere letta solo se ci si riferisca al corpo di Cristo deposto dagli angeli sull’altare dove il sacerdote celebri la liturgia eucaristica». Su questa strada s’incammina anche Bronzino, quando ormai s’avvicina la data del Concilio tridentino. Ma vi sono elementi di verità che la pittura cinquecentesca esprime in forma di mentalismo simbolico: quella di Vasari, “arte mentale” come scrive Massimiliano Rossi, è ancora il manierismo a rendere il significato dell’immagine complesso e simbolico: la Crocifissione (anni 1560-63) ci mostra una Maddalena che si avviluppa al legno della croce e sta per baciare l’alluce del Cristo (pur bianco cadaverico ha però la prontezza di spirito di allargare il ditone come a metterlo in evidenza per l’atto pietoso della donna); l’altro alluce del Cristo tocca con la punta il dorso del pollice della mano destra di Maddalena, e questo ardito gioco di dita è l’acme nella rappresentazione del supplizio del Cristo «vero uomo e vero Dio»: a suo modo un transfer iconografico ancora sul tema dell’Eucaristia.

Il buon ladrone di Giovanni Stradano, sembra invece che sulla croce voglia salirci a tutti i costi spingendosi in alto con le gambe che fanno forza sui piedi trafitti dai chiodi (ancora il tema del sacrificio con Cristo). Ma, in effetti, se si guardano opere come la Resurrezione di Santi di Tito, il Crocifisso di Giambologna, il Cristo e l’adultera di Allori, si coglie una forte sottolineatura dell’umanità del Salvatore (di contrappunto all’iconoclastia protestante). L’allegoria sacra domina La Creazione di Jacopo Zucchi, mentre negli ultimi decenni del XVI secolo si affermano tendenze più classiciste, nella scultura per esempio: la Leda di Vincenzo Danti, l’Ercole di Vincenzo de’ Rossi, l’Allegoria di Francesco I di Giambologna, che raggiunge vette stilistiche assolute nel Mercurio nuovo e antico al tempo stesso. Il versante allegorico è però quello meno coinvolgente, come se fra rappresentazione del sacro e del profano la religione avesse sottratto all’allegoria le sue ragioni simboliche per reintegrarle nella dialettica fra storia e dettati iconografici.


D’intensa e a suo modo svagata cerebralità, per esempio, l’Adone morente del de’ Rossi, dove la ferita sulla coscia sembra comporsi quasi in simbolo erotico. La fine secolo rilancia la questione che era già presente nella mostra su Bronzino: quanto ha appreso Caravaggio da questa cultura figurativa? La progressione, anche nei maestri meno noti, va infatti in una direzione già precaravaggesca (quella del Caravaggio umano e non umanista caro a Longhi). La Flagellazione di Alessandro del Barbiere per esempio; o la straordinaria Visione di san Tommaso d'Aquino di Santi di Tito, o ancora la Madonna in Trono di Gregorio Pagani; e trova conferme coeve a Caravaggio nel bellissimo Martirio di san Giacomo e Josia del Cigoli (1605) e nell’Annunciazione dell’Empoli (1609). Si percepisce cioè quell’aura di cambiamento dove nella “maniera moderna” si vedono già i bagliori del nuovo secolo.

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