mercoledì 16 gennaio 2013
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Un’accorata chiamata a raccolta degli americani, che solo se uniti possono accettare sacrifici e superare avversità. Il Lincoln di Steven Spielberg, tratto da Team of Rivals: The political genius of Abraham Lincoln di Doris Kearns Goodwin racconta il dietro le quinte della lotta del sedicesimo presidente Usa per far approvare il tredicesimo, impopolarissimo emendamento alla costituzione, che di fatto aboliva la schiavitù. Ma è un film che parla anche dell’America di oggi, divisa, litigiosa, confusa, allo sbando.Candidato a dodici premi Oscar – e lo straordinario Daniel Day Lewis, nei panni del protagonista, non potrà mancare quello per la migliore interpretazione maschile – e in uscita in Italia il 24 gennaio prossimo, il film si apre con le crude immagini della guerra civile, come Salvate il soldato Ryan faceva inizio con lo sbarco in Normandia, ma poi si sposta nelle stanze della Casa Bianca e della Casa del Rappresentanti del Popolo, dove nel 1865, negli ultimi quattro mesi di vita del presidente, si consumò la battaglia per cancellare una delle più grandi infamie della storia e porre fine a una guerra che stava uccidendo migliaia e migliaia di giovani. Lincoln, che esplora la dimensione sia pubblica che privata del presidente repubblicano, non è dunque un film di azione e di scene madri: gli effetti speciali sono affidati tutti alla recitazione di Lewis (doppiato da Pierfrancesco Favino) e alle parole di un uomo di fine intelligenza che conosceva assai bene l’arte della retorica.Ricco di dialoghi fittissimi che spesso si sovrappongono tra loro, questo film profondamente politico chiede allo spettatore la massima collaborazione nel seguire i passaggi di un percorso aspro e difficile, che si concluse con esito positivo per due soli voti. E conquistare i consensi necessari perché passasse un emendamento così rivoluzionario, al quale sarebbe stato affidato, come ricorda lo stesso Lincoln, il futuro della dignità umana, richiese metodi non proprio ortodossi, compresa una falsa dichiarazione al Congresso per impedire che una probabile resa degli Stati Confederati del Sud rendesse superflua la fine della schiavitù. La vittoria fu importante, ma non totale: per non correre il rischio di una bocciatura si rinunciò ad affermare l’uguaglianza razziale per sostenere solo quella di fronte alla legge. La lotta per i diritti civili dei neri dovette aspettare Martin Luther King e gli anni Sessanta. Ma è evidente che le parole del Presidente che accompagnano il finale del film, dopo l’attentato che lo ucciderà e che resta fuori campo, sono riferite anche all’oggi quando dichiarano l’importanza della pace tra i popoli, ma soprattutto della solidarietà e dell’unione tra le genti di una stessa nazione, unica via di uscita dal massacro bellico, economico, morale. Ed è curioso notare come il film di Spielberg sia speculare a quello della Bigelow, snobbato dagli Oscar principali. Se il film sulla caccia a Benladen invita gli americani all’unità in nome della lotta a un nemico esterno, quello di Spielberg individua il male da sconfiggere all’interno dell’America stessa, più che mai bisognosa di ricucire una volta per tutte le ferite della propria storia.​
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