mercoledì 10 giugno 2020
Per la la filosofa spagnola «la democrazia in crisi fa crescere gli impulsi totalitari e le autarchie, dicendo che servono alla sicurezza. Ma è falso»
La filosofa Adela Cortina

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«Purtroppo le crisi, anche questa così dolorosa che attraversiamo, non cambiano la gerarchia di valori di un popolo. Può farlo solo il lavoro costante della forgia del carattere, giorno dopo giorno, attraverso l’educazione, formale e informale. La “conversione del cuore” di cui parla Kant è personale». La filosofa e saggista Adela Cortina, emerita di Etica e Filosofia morale e politica dell’Università di Valencia, in un’intervista ad “Avvenire” riflette sulle conseguenze globali del Covid-19. Direttrice della Fondazione Étnor, ha fatto parte del comitato di esperti che ha curato il Rapporto sugli aspetti etici in situazioni di pandemia del ministero spagnolo di Sanità.

Cosa l’ha sorpresa di più della pandemia?

Che nessun paese della Terra fosse preparato per farvi fronte. È risaputo che noi esseri umani siamo fragili e vulnerabili e che le epidemie sono frequenti. Le scienze hanno fatto enormi passi avanti nell’ambito della medicina e, tuttavia, l’umanità intera si è vista attaccata da un virus invisibile, di trenta nanometri di diametro, che sta falcidiando vite senza che sappiamo difenderci. Sarebbe stato meglio che alcuni presunti scienziati avessero investigato in virologia invece di promettere la morte della morte per il 2045.

Quali riflessioni ha suscitato sul valore della vita?

Il personale sanitario ha dimostrato, con impegno ammirevole, che la sua vocazione consiste nel salvare vite e palliare sofferenze. E una buona parte della società civile ha reso evidente che non sono i più forti, i suprematisti, che vivono del conflitto e la prepotenza ad aiutare a sopravvivere, quanto chi punta sull’aiuto mutuo e la solidarietà.

Le nuove tecnologie – internet, reti sociali, applicazioni – se da un lato aiutano a uscire dall’isolamento e a una maggiore conoscenza e coscienza dei diritti universali, dall’altro sono veicolo di fake news e manipolazione. Crede che contribuiranno ad aumentare la massa critica o, al contrario, favoriranno il controllo dell’opinione pubblica?

Tutto dipende dalla cittadinanza, se sarà lucida e matura oppure puerile e manipolabile. Nel primo caso, utilizzerà le nuove tecnologie per ampliare il suo spazio di relazioni, selezionerà le informazioni che ritiene importanti e non anonime, metterà in quarantena ogni notizia che suoni a bufala ed esigerà misure perché le grandi piattaforme rispettino regole etiche. Insomma, metterà le tecnologie al proprio servizio. Ma, se credula e conformista, sarà lei stessa a mettersi nelle mani di soggetti ellittici.

Sacralità della persona da un punto di vista teologico, dignità da un punto di vista filosofico–razionale: è possibile un’etica comune nelle nostre società?

Naturalmente è possibile un’etica comune nelle società pluraliste: è l’etica civica, dei cittadini, basata sulla dignità delle persone e la cura della natura. I suoi valori sono la libertà a fonte della schiavitù, l’uguaglianza a fronte della disuguaglianza, la solidarietà a fronte dell’egoismo, il rispetto attivo a fronte dell’intolleranza, e il dialogo a fronte della violenza, quando sono poste le basi che lo rendono possibile. Nell’ambito di questa etica minima condivisa i cittadini vivono le proprie etiche di massima, di vita felice, sia religiose che secolari.

A livello globale, crede ci sia stato un retrocesso della democrazia deliberativa rispetto alle autarchie, per gli stati di allarme, eccezione o emergenza dichiarati da molti governi per combattere la pandemia?

Disgraziatamente è così, la democrazia è entrata in recessione e si rafforzano gli impulsi totalitari e le autarchie, con la scusa che è la maniera di assicurare la vita. Ma è falso. Gli Stati totalitari coartano la libertà, fomentano l’opacità e non si preoccupano di salvare vite, sono invece disposti a permettere che muoiano persone se lo ritengono conveniente. Il modo in cui ha proceduto la Cina è stato paradigmatico: occultare l’inizio del contagio ha accelerato la propagazione del virus, causando una grande quantità di morti che si poteva e si sarebbe dovuto evitare. È urgente rafforzare la democrazia e la trasparenza.

Lei ha coniato il termine “aprofobia”, la paura del povero. La pandemia ha scatenato la fobia – quando non gli insulti – al contagiato, allo straniero, al migrante: esiste un vaccino?

Esiste ed è antico come l’umanità, solo che non si applica. Consiste nella scoperta, dal cuore e dalla regione, da una ragione cordiale, che ogni persona ha valore in sé. Creare istituzioni ugualitarie è necessario per favorire questa scoperta, ma è ogni persona a doverla fare. Se non sarà così, i poveri continueranno a essere relegati, con o senza coronavirus.

Durante la crisi del 2008 lei propose di cambiare il nome di “stato di benessere” con quello di “stato di giustizia”, che ha origine nella dignità dell’essere umano. In cosa differiscono e cosa bisognerebbe fare perché non siano gli stessi a dover pagare il brutale impatto dell’epidemia?

Nel mio libro Cittadini del mondo (Alianza, 1997), parlavo della necessità di uno Stato di Giustizia, che protegga i diritti civili e politici, economici, sociali e culturali, ovvero ciò che è giustizia per la Dichiarazione Universale di Diritti Umani del 1948. È la chiave di uno Stato Sociale e Democratico di Diritto. Il benessere, come diceva Kant, è un ideale dell’immaginazione e ogni persona lo immagina in maniera diversa, con il rischio che nella somma del più grande benessere del maggiore numero di persone si soddisfino i desideri di alcuni e si violino i diritti di molti.

Da un lato la disgiuntiva fra libertà e sicurezza, dall’altro la dialettica fra scienze e umanistica, con le prime che si impongono in un mondo minacciato da patogeni biologici e chimici. Come valuta la tensione fra le due dilettiche?

Non esiste disgiuntiva fra libertà e sicurezza, quanta più libertà bene intesa ci sarà, tanta più trasparenza e maggiore sicurezza. Nemmeno si prospetta un’alternativa fra scienze e umanità, che piuttosto devono lavorare assieme. Le scienze per ampliare la conoscenza oggettiva dell’universo, e gli studi umanistici per dirigere questa conoscenza al bene dell’umanità e alla cura della natura, da questo “noi” intersoggettivo, che bisogna rafforzare da una ragione dialogica cordiale.

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