sabato 28 aprile 2012
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Paddy Moloney avrà avuto si e no sei anni quando la madre gli comprò «per una sterlina e nove pence» il suo primo pennywhistle. Ma su quel flau­to a fischietto il "folker" dagli occhi di ra­gazzo avrebbe costruito una delle più lon­geve avventure artistiche della musica ir­landese; quella dei Chieftains, che festeg­giano proprio quest’anno mezzo secolo di vita dando alle stampe Voices of ages , la­voro decisamente ambizioso che prova a far dialogare passato e futuro aprendo il patrimonio della canzone tradizionale ir­landese al top della nuova scena country­folk anglo-americana. Di gran nome gli o­spiti – Paolo Nutini, Bon Iver, Imelda May, Punch Brothers, Decemberists ed altri va­lenti alfieri del nuovo che avanza – sele­zionati con cura dal produttore T-Bone Burnett, eccezionalmente relegato al sem­plice ruolo di "assistente" per non intral­ciare il lavoro in cabina di regia di Molo­ney, che a 73 anni sprizza energia come un ragazzo. Risultato come sempre pieno, pur senza la voglia di stupire né il coté intel­lettuale del sorprendente San Patricio da­to alle stampe dai Chieftains due anni fa con Ry Cooder.Signor Moloney, ce la fa a comprimere cinquant’anni di Chieftains in tre ricor­di?Provo. Innanzitutto citerei il nostro primo concerto alla Royal Albert Hall, nel ’74. Ve­dere quattromila persone scatenarsi in quell’aristocratica cornice vittoriana per noi fu quasi un trauma, anche se non ci cambiò la vita visto che saremmo rimasti dei semiprofessionisti per circa un ven­tennio. Altro ricordo straordinario è quel­lo legato ai due concerti milanesi del ’76 a Milano, perché il nostro amore per l’Ita­lia è nato lì. Metterei pure il tour in Cina dell’ 83 quando suonammo alla Grande Muraglia divenendo la prima band occi­dentale ammessa a suonare in Cina.Nel ’79 siete stati scelti come voce del Pae­se per suonare in onore della prima visi­ta di Giovanni Paolo II in Irlanda.Fu una cosa clamorosa. Davanti a noi c’e­rano un milione e trecentomila fedeli, e quei nostri venti minuti di musica furono trasmessi dalle tv di tutto il mondo. Ma soprattutto c’era il Papa. E suonare per lui è stata un’emozione unica.Torniamo al nuovo album. Come ha scel­to gli artisti ospiti e T-Bone Burnett?Riascoltando la colonna sonora scritta da Burnett per il film dei fratelli Coen Fratel­lo, dove sei? l’ho trovata molto affine ad un mio album del ’92, Another country, realizzato con Emmylou Harris ed altre glorie della country music. Ho capito che in fondo parlavamo la stessa lingua e gli ho affidato il compito di cercare tra i suoi amici quelli giusti per il progetto che ave­vo in mente.Nel cd c’è anche un brano che documen­ta il duetto dei Chieftains con l’astronauta americana Candy Coleman in diretta dal­la stazione orbitante.È accaduto lo scorso anno. Lei si trovava lassù e noi a Toronto. Spesso durante i concerti mostriamo il video di questo no­stro «duetto spaziale» e la reazione è sem­pre di grande stupore. Con Candy ci co­nosciamo ormai da 16 anni, da quando me la presentò mia figlia Padraig, che al­lora viveva a Houston e lavorava alla Na­sa.Fra le centinaia di artisti con cui ha col­laborato in questi cinquant’anni, quali ricorda in modo particolare?Sicuramente Paul McCartney, Mike Old­field, Don Henley degli Eagles, Mick Jag­ger, Van Morrison, Jackson Browne, ma anche Monsignor Marco Frisina, musici­sta e biblista, che è anche direttore della pontificia Cappella Musicale Lateranen­se, con cui ho condiviso Silent Night: Ch­ristmas in Rome , uno degli episodi più im­portanti della mia discografia.Lei ha un’energia invidiabile. È vero che sta già pensando a nuovi progetti?Ho appena accompagnato alle Uilleann pipes John Montague in The wild dog ro­se, album in bilico tra musica e poesia che, ancor più delle canzoni, mette la mia mu­sica al servizio della parola. Un concetto che mi piace molto.
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