martedì 29 novembre 2022
Nel centenario della "Terra desolata", un confronto con "Resurrezione di Roma", magna carta per il rinnovamento sociale e culturale
Chiara Lubich

Chiara Lubich - archivio

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Poeti e mistici nei secoli hanno saputo avere uno sguardo in profondità da dentro le piaghe e gli interrogativi della loro epoca e spalancare spiragli di speranza oltre il buio. Nel contesto così drammatico incerto e oscuro che stiamo vivendo, è utile mettersi in ascolto di un poeta e drammaturgo tra i maggiori del Novecento quale fu Thomas Stearn Eliot, e di Chiara Lubich, donna carismatica e mistica, fondatrice di un’Opera a dimensione mondiale, multiculturale e multireligiosa. Soffermandoci in particolare sull’opera eliotiana più celebre La Terra desolata di cui ricorre il centenario della pubblicazione (1922) e su uno scritto mistico chiariano considerato tutt’oggi una magna carta per il rinnovamento sociale e culturale, Resurrezione di Roma apparso sulle pagine del settimanale “La Via” nell’ottobre 1949. Entrambi i testi, pur composti a distanza di più di 20 anni, nell’immediato dopoguerra dei due conflitti mondiali, si illuminano reciprocamente e si rivelano oggi profetici. Eliot compone The Waste Land mentre sta attraversando una lunga, lacerante crisi interiore, sullo sfondo dello sfacimento provocato dal primo conflitto mondiale. Con grande forza comunicativa mette a nudo il disordine, lo smarrimento, la frammentazione, il vuoto di senso, la solitudine, la paura del futuro, in una parola la crisi del suo tempo, che è ancor più del nostro tempo. Scorrendo i suoi versi vediamo passare sotto i nostri occhi, sullo sfondo di una “città irreale” simbolo di decadenza, quella “grande folla” che «fluiva sul London bridge»: uomini «pieni di desideri e vuoti di significato». «Uomini e pezzi di carta risucchiati dal vento freddo...».

Vittime di una vita materialistica e disumanizzante. Ci raggiunge quella voce angosciata per l’incomunicabilità, che fa gridare: «Parla... perché non parli... sei vivo o morto?...». Si sovrappongono immagini dei detriti sulle sponde del Tamigi che dicono decomposizione... arsura che invade uomini e ambiente. Inquietano le immagini di distruzione apocalittica, il crollo di tutta la civiltà. Balena una possibilità di vita. Si addensano nubi nere, ma pone condizioni nell’antico sanscrito, nel linguaggio delle Upanishad, le scritture della sapienza indù a cui Eliot era approdato in quegli anni: datta; dayadhvam; damyata. Chiede di “dare”, di “essere compassionevoli”, di avere “controllo”... in una parola chiede amore... ma la terra non risponde... La tragedia del rifiuto. Le ultime visioni aprono alla speranza: Shantih Shantih Shantih. Ancora in sanscrito. Un’accorata invocazione di pace ben al di là di ogni conoscenza che per gli induisti si raggiunge identificandosi con la divinità. Ed è proprio una singolare esperienza dei vertici dell’unione con Dio che Chiara Lubich stava vivendo quando in Resurrezione di Roma indica la via per passare dalla morte spirituale alla pienezza di vita. Giunge nella capitale mentre era immersa in questa dimensione mistica tale da denominare quel periodo “Paradiso ‘49”. Era iniziata nell’estate di quell’anno, nella cornice delle Dolomiti. L’esperienza di quella pienezza di Amore che la inonda, le dà occhi nuovi sul disegno di Dio sul creato e l’umanità. Perciò forte è l’impatto con la disgregazione sociale, il degrado materiale e morale della città, dove ancora aperte erano le ferite inferte dalla guerra. Ritroviamo qui quella visione desolante della morte-in-vita, quel vedere come Eliot, «fuori per le vie la nullità che passa». Chiara volge lo sguardo a Colui che è l’Amore incarnato: illuminata da questo amore che «tutto crede» vede proprio in quella «nullità che passa», nei ciechi «con gli occhi spenti», nei muti e storpi immobilizzati spiritualmente, potenzialità sopite da rivitalizzare. Indica come chiave per resuscitare i morti-in-vita e rivoluzionare tutto: «politica e arte, scuola e religione, vita privata e divertimento», il «far rinascere Dio in noi, tenerLo vivo e traboccarLo sugli altri come fiotti di Vita. E tenerlo vivo fra noi amandoci. Lo aveva sperimentato già all’inizio degli anni Quaranta, in un’altra città, Trento, quando, proprio mentre tutto crollava sotto i bombardamenti del primo conflitto mondiale, in lei e poi in molti si edificava una novità di vita per l’irrompere della folgorante scoperta di Dio Amore, su cui tutto ricostruire.

Eliot come Chiara, attraverso vie molto diverse, approda all’incontro con il Trascendente che ispira tutta la seconda fase della sua produzione letteraria, a cominciare dal primo dei Quattro quartetti, “Burnt Norton”. L’illuminazione avviene nel 1927. È di un solo istante... ma segna la svolta di una vita: la sua conversione all’anglicanesimo. Poi un nuovo momento di illuminazione: la scoperta di «che cos’è l’amore» che troviamo in The Elder Statesman: «Sono stato sfiorato dalle ali della felicità, sono stato liberato dall’io che pretendeva di essere qualcuno. Diventando nessuno incomincio a vivere». È la risposta a una chiamata a «muoversi continuamente verso un’altra intensità in un annientamento di ogni attimo della vita nell’amore, nell’ardore, nell’altruismo...». Nell’approdo alla fede il poeta trova risposta non solo a livello personale, ma sociale. Nei Selected Essays troviamo parole ancora di grande attualità: “«La fede deve essere tenuta viva in questi tempi bui per rinnovare e ricostruire la civiltà a salvare il mondo dal suicidio».

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