sabato 22 aprile 2023
L’artista protagonista al Mart con un progetto dedicato alla sue “porte": «L’attraversamento è la nostra condizione. Lo avvolgo nella luce perché è una questione metafisica e spirituale»
Chiara Dynys, “Giuseppe’s Door”, 2020-2021

Chiara Dynys, “Giuseppe’s Door”, 2020-2021 - Rendering dell'installazione al Mart di Rovereto

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La piazza del Mart ha una nuova “porta”. Al centro della fontana si innalza una grande struttura di metallo coperta d’oro, perno attorno a cui ruota “L’ombra della luce”, focus espositivo che il museo di Rovereto dedica a Chiara Dynys, da oggi fino al 27 agosto 2023. Giuseppe Panza di Biumo ha scritto che “Chiara Dynys è un’artista della luce. Ha scelto di lavorare con l’impalpabile sostanza che è pura energia, ma che non è solo energia, diventa qualcosa che ci scalda, ci fa vedere il mondo”. A lui l’artista ha dedicato Giuseppe’s Door, una “porta” che ora diventa in varie declinazioni protagonista del progetto per il museo roveretano, dove tra l’altro è presente anche Giotto Behind the Mirror, installazione parte della mostra “Giotto e il Novecen-to”, prorogata fino al 1° maggio. La soglia e la luce sono i temi cardine dell’artista di origini mantovane, protagonista di una carriera internazionale che l’ha vista esporre dal Musée d’Art Moderne di Saint-Étienne al Centre d’Art Contemporain di Ginevra, dalla Städtische Galerie di Stoccarda fino al Kunstmuseum di Bonn, il Museo del Novecento di Milano e la Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma oltre che Villa e Collezione Panza di Varese. Un percorso iniziato nella seconda metà degli anni 80: « In quell’epoca in Italia eravamo pochissime artiste. Se si scorrono i cataloghi delle retrospettive sull’arte di quegli anni non troverà altri nomi oltre al mio. Le donne della mia generazione hanno iniziato ad apparire negli anni 90, quando le cose sono iniziate a cambiare. E per quanto riguarda generazioni precedenti c’erano grandi artiste ma isolate e in numero circoscritto: penso a Carla Accardi, Dadamaino, Grazia Varisco, Giosetta Fioroni».

Come è iniziato il suo lavoro sulla soglia?

Il punto di partenza è stata la pittura. Costruivo i colori manualmente, usando pigmenti, cere sciolte, resine bicomponenti, la sabbia ferrosa di Baratti, lo zolfo. Grandi campiture dipinte a terra. Fin dai primi lavori c’era l’idea della soglia, dell’apertura, con la luce che emerge oltre e attraverso le forme. Poi ho cominciato a sagomare le tele e quindi a estrofletterle: lavori di grandi dimensioni che ora sono nei musei europei. Sono passaggi ispirati all’antro della Sibilla a Cuma, un luogo per me magico: un corridoio con un continuo reiterarsi di forme trapezoidali in una alternanza di buio e luce.

Sono lavori in cui la soglia acquisisce densità. Nei vetri intrisi di luce delle Giuseppe’s Door è molto evidente.

La soglia è il punto in cui coincidono inizio e fine, partenza e ritorno. La soglia è il luogo, la condizione. È la nostra stessa esperienza. Sono soglie anche le piccole feritoie, ognuna di un bianco e di un materiale diverso, che ho portato al museo di St. Etienne.

Lei ha praticato il cinema e ha fatto riferimento alle precoci visioni cinematografiche accanto a sua madre, che si occupava di critica cinematografica. Come l’esperienza del cinema, che è come un grande attraversamento, ha agito alla base della sua poetica?

La mia idea della soglia, del cono ottico, è legatissima al cinema. Mia madre visionava film e con lei ho visto da bambina i film di Ingmar Bergman: forse in un’età un po’ precoce… però il mio immaginario si è sviluppato in una direzione metafisica. E per questo il mio attraversamento non è un semplice passaggio di luogo fisico, un andare da un luogo a un altro, ma è un attraversamento intimo, spirituale. È lo stesso che accade durante la visione di un grande film o la lettura di un grande romanzo. Si fa un salto, si va oltre. Si cambia.

Chiara Dynys, “Giuseppe’s Door”, 2020-2021

Chiara Dynys, “Giuseppe’s Door”, 2020-2021 - © Magonza, Arezzo Photo Michele Alberto Sereni e Natascia Giulivi

La cornice di solito serve a separare l’immagine dal muro, lei la trasforma nel luogo del passaggio.

Quella che chiamiamo cornice diventa una stanza. Per me è importantissima. Le “cornici” dei miei lavori sono fusioni in metacrilato, luminescenti, trasparenti o traslucide. Sono parte del lavoro, le costruisco in un pezzo unico perché devono essere una scultura che porta all’interno di un mondo. Non è un apparato estetico, è coessenziale al senso. È una fusione che ti assorbe, un condotto che ti risucchia in un universo. Come il corridoio della Sibilla. In questo senso mi hanno influenzato i primissimi lavori di Peter Halley a New York, a metà anni 80. Per me sono stati uno choc rivelatore. Vedendoli ho capito che anch’io con il mio linguaggio avrei immaginato una luce in fondo al tunnel.

Nei suoi libri aperti su cui sono scritte coppie di parole il passaggio non esiste fisicamente ma è percepibile nella tensione che si instaura tra gli opposti. Che cos’è per lei il reale?

Le rispondo con una frase di William Blake, che mi ha fatto conoscere Margaret Mazzantini e mi corrisponde in tutto e per tutto: “I contrari sono ugualmente veri”. Dove trovo il passaggio tra le parole, tra queste due contrapposizioni? Io costruisco su questi libri un rapporto dialettico tra due significati semplici, primari. Parole e frasi che arrivano dirette. “Tutto / Niente”. “Terra / Mare”. Sono contrapposti che si completano in una sola immagine, una visione unitaria. E concreta.

In Gold Shell la presenza dell’oro accentua il valore sacro della soglia.

Quando si muore forse si va nella luce, ma certamente arriviamo nel mondo uscendo alla luce dal grembo protetto in un buio acquatico. La luce pervade tutto ed è indifferente a tutto, mentre noi non possiamo essere indifferenti nei suoi confronti. Ho usato l’oro già nelle prime opere a New York. È il colore della luce, del divino, del sacro. L’oro è una espressione dell’andare oltre. L’ho usato insieme al vetro nell’installazione I camini delle fate, proposta a Villa Panza nel 2021, ispirata a cenobiti eremitici in Cappadocia, un luogo mistico dove da questo mondo si pensa all’altro. Sono dorate le cornici dei miei trittici dedicati all’infanzia in Libano. L’ho impiegato insieme alle superfici specchianti nei monoliti del mio San Sebastiano, nell’opera che ho dedicato a Giotto, esposta al Mart, nell’installazione dedicata al San Nicola di Piero della Francesca al Poldi Pezzoli, nel 2013… Con il mio lavoro intendo trasmettere una grande energia, mostrare come la nostra finitezza possa incontrarsi con una delle grandi forze dell’universo senza, per così dire, uscirne “con le ossa rotte”: la nostra cronaca appartiene per un pezzetto infinitesimo a quell’infinito. La nostra storia, anche la storia dell’arte, in qualche momento tocca quell’infinito. Le forme aspirano ancora una volta a quell’infinito. E qual è l’infinito più accessibile per un artista se non la luce?

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