giovedì 4 agosto 2016
Il re degli Ottomila, Reinhold Messner: «Questo non è alpinismo, è turismo Il mio farmaco è l’augurio dei tibetani quando lasci la tenda: “Kalibe’”, sempre con il passo lento».
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Se ti droghi non entri davvero in relazione con la montagna e la scalata diventa uno sforzo, una fatica fine a se stessa. Senza gioia. Per questo, nella sua lunga e gloriosa carriera di alpinista, Reinhold Messner non ha mai fatto uso di farmaci e di sostanze per migliorare le proprie prestazioni. «Tra le mie regole personali, c’è anche il rifiuto delle droghe», ricorda il re degli Ottomila, dicendosi «fortunato» perché «ai miei tempi queste sostanze non si conoscevano e quindi non ho corso il rischio di cedere a questo pericolo. Poi, quando sono arrivate avevo la giusta maturità per rifiutarle». La sorprende che un terzo degli alpinisti che affrontano il Monte Bianco si “aiuti” con i farmaci? «Non mi stupisco, anche perché oggi le sostanze in circolazione sono davvero tante. Se sul Monte Bianco un terzo si droga, sugli Ottomila è molto di più. Il problema è che in montagna non c’è una regola, non ci sono controlli, né antidoping». Ma che alpinismo è quello che fa uso di farmaci? «Oggi gli alpinisti tradizionali sono pochi. Per il resto, l’alpinismo è diventato sport e turismo. Quando una fila di persone sale sull’Everest lungo una pista tracciata da decine di sherpa, con ossigeno artificiale, chilometri di corde fisse e un medico all’ultimo campo, non si può più parlare di alpinismo, ma di turismo. E lo stesso vale per chi, non riuscendo a salire il Monte Bianco con le proprie forze, si aiuta con la chimica». Che effetto le fa questa degenerazione della concezione stessa della montagna? «Mi dà fastidio ma, alla mia età, non mi arrabbio più. E stimo molto gli alpinisti che non si drogano e vanno lo stesso a fare vie difficili. Purtroppo, però, temo che in futuro saranno sempre di più quelli che useranno la chimica. Chi ricerca soltanto l’applauso di una grande massa, farà di tutto per arrivare in cima al’Everest, costi quello che costi. Chi, invece, vuole fare esperienze importanti in montagna non usa la droga». Con l’estate le montagne si popolano di appassionati. Che messaggio vuole lanciare a chi è attirato dalle vette? «Il mio unico “farmaco”, ciò che mi aiuta quando vado in montagna è una parola che dicono spesso i tibetani e suona così: Kalibe’. Significa “Sempre col passo lento”. Quando lasci la tenda al campo base per cominciare la scalata, gli sherpa ti fanno questo augurio che è prima di tutto un consiglio: “Cammina sempre al tuo passo”. Allora non servono i farmaci e capisci veramente la relazione forte con la montagna infinita, grande e anche pericolosa. Che sull’uomo esercita da sempre un fascino potente proprio perché rappresenta qualcosa di infinito se rapportato alla nostra umanità. Ma questo lo capisci se non usi i trucchi». Anche perché con la montagna non c’è gara... «Ma è proprio la moda delle gare in montagna (sugli sci, di corsa) ad aver introdotto l’uso dei farmaci. Basta con le gare, non servono! In montagna il confronto non è “contro” qualcuno, non ci sono avversari. Il confronto è solo con sé stessi, con le proprie debolezze, con le proprie paure, con le proprie angosce. E anche con le proprie gioie quando si arriva in vetta».
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