lunedì 1 luglio 2013
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Nella Commissione conciliare che preparava  il decreto Ad gentes ci sono entrato alla fine del settembre 1962, come uno dei trenta «periti» nominati da Giovanni XXIII, mentre il direttore dell’Osservatore Romano Raimondo Manzini mi invitava come redattore del giornale durante i mesi autunnali del Vaticano II (1962-1965), incaricandomi di preparare le due-tre pagine conciliari quotidiane con monsignor Benvenuto Matteucci (poi vescovo di Pisa) e il salesiano don Paolo Vicentin. Nel 1962 avevo 33 anni e da 9 scrivevo su temi missionari come direttore della rivista del Pime Le Missioni Cattoliche, poi divenuta Mondo e Missione. La mia nomina a perito conciliare credo sia stata un segno di affetto del Papa per il Pime, come il dono della sua casa natale a Sotto il Monte (oggi museo del Beato Giovanni XXIII e meta di tanti pellegrinaggi) al nostro Istituto. Il lavoro stressante che mi richiedevano L’Osservatore e Le Missioni Cattoliche (continuavo a dirigere la rivista anche da Roma, con rapidi viaggi settimanali notturni in treno a Milano, la notte di venerdì e la notte di domenica!) mi ha impedito di dare il tempo necessario alla Commissione delle missioni. Però, aver avuto in mano i testi prodotti e intervistare vescovi ed esperti membri della commissione, mi ha permesso di seguire passo passo i contrasti e la maturazione dell’Ad gentes. I ricordi più belli del tempo conciliare riguardano gli incontri con i vescovi che intervistavo per il quotidiano vaticano: le migliori interviste le ho poi pubblicate nel volume Concilio e Terzo Mondo (Emi, 1966), tradotto in francese (Le Concile du Tiers Monde, Centurion). Intervistavo i tipi più tosti di vescovi delle missioni: Zoungrana, Gracias, Rugambwa, Gantin, Malula, Helder Câmara, Lokuang, Zoa, Khoreiche, Mar Gregorios, Raymond, Nguyen Van Binh, Larrain, Nagae, Gopu, Yamaguchi, Busimba; inoltre, molti vescovi missionari di nazionalità italiana o europea e personalità del Concilio (Agagianian, Gilroy, Bea, Koenig, Lercaro e molti vescovi missionari). Al lettore d’oggi questi nomi dicono poco, ma all’epoca erano personalità emergenti, a volte sorgevano problemi per pubblicare le loro interviste sull’Osservatore: oltre ad alcuni tagli, due le interviste non pubblicate, al cardinale Bea e a monsignor Helder Câmara (che ho poi inserito nel libro). Quelle interviste ai vescovi del Concilio, lunghe e accurate, avevano buona risonanza nella stampa internazionale, portavano alla ribalta i problemi delle missioni. Una delle personalità che più mi hanno impressionato durante il Concilio fu proprio Helder Câmara di Recife (Brasile), del quale sono stato fra i primi, credo, a scrivere articoli sulla stampa italiana. Il decreto Ad gentes è stato il documento del Vaticano II che ha avuto il maggior numero di rifacimenti (sette!) e però, alla fine, anche quello che ha ottenuto il numero più alto di voti favorevoli (solo 5 contrari); e anche l’ultimo documento approvato nell’ultimo giorno di lavoro del Vaticano II, il 7 dicembre 1965. Sono segni evidenti di quanto il tema missionario stesso, nel panorama degli argomenti che il Concilio ha discusso, fosse il più difficile e anche meno conosciuto dai 2500 padri conciliari nel loro complesso; e la missione alle genti era ancora considerata l’ultima o la penultima ruota del carro ecclesiale, nonostante tutti i pronunziamenti del Concilio e dei Papi. Già prima dell’inizio del Concilio, i molti temi da discutere e la loro complessità si presentavano come una montagna difficile da scalare. Al termine della prima sessione del Concilio (ottobre-dicembre 1962), sebbene i risultati concreti nel campo missionario fossero ancora pochi, il Concilio aveva però manifestato le sue finalità più importanti, le mete a cui tutti i lavori tendevano: il rinnovamento pastorale per la ricristianizzazione del mondo cristiano, il riavvicinamento ai fratelli separati in vista dell’unione e una chiara «apertura missionaria» data a tutti i problemi in discussione. Il decreto Ad gentes ha avuto un cammino quanto mai laborioso e contrastato. Seguendo il suo iter e parlandone con diversi membri della Commissione, molto più esperti di me, concludevamo dicendo: chissà come faremo a venirne fuori! Le proposte erano così tante e contrapposte, i tempi così stretti... Arrivavano continuamente suggerimenti nuovi e contraddittori, in aula i vari testi erano rimandati alla Commissione con molti iuxta modum da inserire (testo approvato, ma con richiesta di cambiamenti). Le difficoltà aumentano quando il 23 aprile 1964, fra la II e la III sessione, la segreteria del Concilio manda una lettera alla nostra Commissione delle missioni: lo schema deve essere ridotto a poche proposte. Non più un testo lungo e ragionato, ma un semplice elenco di proposte! Il tentativo era di semplificare i lavori del Concilio e farlo terminare con la III sessione (14 settembre-21 novembre 1964). Alcuni documenti conciliari potevano essere abbastanza ampi; altri, ritenuti meno importanti, dovevano limitarsi a poche pagine di proposte. La motivazione ufficiale era che molti punti di teologia missionaria dell’Ad gentes erano già trattati nella Lumen gentium o contenuti in altri documenti ufficiali dei Papi e della stessa Propaganda Fide. Ma era voce comune che le spese per i padri conciliari e la macchina del Concilio erano del tutto insostenibili per la Santa Sede. Pare che poi siano intervenuti gli episcopati più ricchi, specie quello americano e in particolare il cardinale Francis Spellman di New York (1889-1967), espansivo e simpatico personaggio simbolico della potenza americana, sul quale e sui cui interventi in latino (la lingua del Concilio) giravano aneddoti gustosi. Comunque la Commissione delle missioni lavora a spron battuto (nottate di lavoro) per aderire alla richiesta di ridurre l’Ad gentes a 13 proposte. Ne viene fuori un testo di sole 6 pagine, 200 righe in tutto, in uno stile stringato, quasi un susseguirsi di slogan! Un’assurdità, quando si pensa che il documento precedente, a forza di correzioni e rifacimenti (era già la quarta stesura), era giudicato da tutti un testo ben riuscito in 6 capitoli, un proemio e un’esortazione finale. Nell’estate 1964, le sei pagine con le 13 proposte vengono stampate e inviate ai padri conciliari in tutto il mondo e subito arrivano a Roma le proteste dei vescovi e non solo quelli di missione. Ad esempio, il cardinale Frings arcivescovo di Colonia (che aveva come perito Joseph Ratzinger) manda lettere ai vescovi tedeschi e ad altri, sollecitandoli a protestare. Lui stesso scrive: «Ma come! Si afferma che lo sforzo missionario è essenziale per la Chiesa e poi si vuol ridurlo a poche pagine? Incomprensibile, impossibile, inaccettabile».Il cardinal Valeriano Gracias di Bombay scriveva che se l’Ad gentes era solo quelle poche righe, lui era pronto a tornare subito alla sua metropoli indiana. Vista la situazione, alla ripresa dei lavori nell’aula conciliare (settembre 1964) un gruppo di vescovi chiede (ma l’ipotesi è subito scartata) di abolire il documento sulle missioni, integrando il materiale nella costituzione Lumen gentium (sulla Chiesa); altri insistono nel mantenere il breve testo con le 13 proposte; altri, invece, più numerosi e agguerriti (c’erano dentro missionari di foresta, che solo al vederli non si poteva dir loro di no), vogliono un vero decreto sulle missioni e procedono a contatti personali, uno per uno, con tutti i padri conciliari, conquistando seguaci. La battaglia in aula si conclude in modo felice nel novembre 1964 alla presenza di Paolo VI: solo 311 padri conciliari si pronunziano a favore del documento sulle missioni ridotto a 13 proposte (e molti di questi lo fanno per rispetto al Papa), ma 1601 votano contro e chiedono che il decreto missionario sia salvato nella sua interezza. Bisogna quindi rifare ancora una volta l’Ad gentes (come succedeva del resto anche per i testi di altre commissioni). Così il Concilio non termina con la III sessione, ma si prolunga nella IV, la più lunga di tutte: 14 settembre-8 dicembre 1965; che, per la commissione dell’Ad gentes, è stata la più tormentata e faticosa ma anche, diciamo, la più gloriosa, perché poi alla fine il decreto è stato approvato da una maggioranza quasi assoluta.
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