giovedì 22 febbraio 2024
Tommaso d’Aquino e poi Edith Stein seppero fondere teologia e filosofia del loro tempo restando fedeli al mistero della rivelazione: oggi necessario far dialogare la lettura teologica con la filosofia
Bruno Forte

Bruno Forte - Agenzia Romano Siciliani

COMMENTA E CONDIVIDI

È uscito in questi giorni per i tipi della Morcelliana di Brescia il libro di Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto, dottore in filosofia e teologia, dedicato al rapporto fra queste due discipline: Filosofia e teologia (pagine 128, euro 12,00). Il testo riprende una lezione da lui tenuta alla Pontificia Università Lateranense su invito della professoressa Patrizia Manganaro, docente di Storia della filosofia contemporanea e direttrice dell’Area internazionale di ricerca “Edith Stein e il pensiero contemporaneo”, che firma la postfazione. Qui pubblichiamo l’introduzione per gentile concessione dell’autore.

Quale rapporto può esserci fra teologia e filosofia? Una risposta esemplare a questa domanda è stata data da san Tommaso d’Aquino: la fedeltà al primato di Dio si è unita in lui all’attenzione all’umano in tutte le sue espressioni a partire dall’amore a Cristo e al prossimo che animò la sua vita, poiché - come egli stesso afferma - «il Figlio è stato mandato… a istruire l’intelletto in tal modo che prorompa nell’affetto dell’amore» (Summa Theologiae). Lo stesso Tommaso, poi, concepisce la filosofia come «sapienza dell’amore», nutrita dall’ascolto della vita e della storia degli uomini, più che come aristocratico «amore della sapienza» riservato a pochi. Per questo attribuisce alle discipline filosofiche piena dignità, tanto da aprire la Summa Theologiae con la domanda tutt’altro che retorica: «Se sia necessario oltre le discipline filosofiche avere un’altra dottrina». Quello su cui lui si interroga non è la legittimità del pensare umano espresso dalle discipline filosofiche, quanto lo spazio di un altro pensiero, che sia dottrina dell’avvento divino. La sfida che Tommaso accoglie è quella di fondare il pensiero della fede in modo che siano rispettate contemporaneamente la dignità dell’umano, inquieto e problematico, e il primato di Dio.

La domanda diventa allora: come sviluppare sull’esempio di Tommaso una teologia che, senza tradire l’obbedienza alla rivelazione, possa dirsi scienza e dialogare col pensiero riflesso e critico dell’umano, che è la filosofia? L’interrogativo va certo riferito al contesto dei tempi in cui Tommaso visse: alimentandosi della Scrittura e dei Padri, la cui “lectio” è stata per lui assidua, egli assunse la dialettica della filosofia aristotelica senza tradire il dogma cristiano. Il primato dell’avvento divino è stato da lui affermato incondizionatamente, parimenti però assumendo lo statuto scientifico del sapere di impianto aristotelico: contemporaneo al suo tempo - caratterizzato dal cosiddetto “ingresso di Aristotele” nel pensiero critico della conoscenza -, Tommaso è rimasto pienamente fedele al Mistero rivelato. La sua teologia è contemplazione del Dio che viene e insieme propriamente scienza agli occhi del nuovo pensare di matrice aristotelica: scienza dell’avvento divino, costruita rilevando i rapporti di causalità, di prossimità e di differenza, fra il mondo del Dio veniente e il mondo degli uomini, in cui si rende presente.

È anzitutto in questa forte contemporaneità al suo tempo, vissuta senza compromettere la fedeltà all’avvento divino, che Tommaso resta maestro per ogni stagione della fede. Alla sua scuola la teologia si mette in ascolto della rivelazione del Dio vivo, che sola strappa la storia all’immanenza finale nel nulla, facendosi attenta al tempo stesso ai nuovi apporti della filosofia, a quello “scire per causas” aristotelico, che tanto fascino eserciterà in ogni ambito di ricerca. Nelle pagine che seguono, guardando al luminoso esempio di San Tommaso, la riflessione verterà sul rapporto fra filosofia e teologia - e di quello fra lettura teologica della storia e filosofia della storia, quale “caso” particolarmente intrigante di questo rapporto - nel tentativo di dar ragione della loro ineliminabile diversità e del loro inevitabile incontro.

Esprimono la feconda inevitabilità di tale incontro ad esempio le parole di Edith Stein, una mistica che fu non di meno pensatrice di singolare vigore e profondità: «Durante il periodo, immediatamente prima, e anche per molto tempo dopo la mia conversione... credevo che condurre una vita religiosa significasse rinunciare a tutte le cose terrene e vivere solo nel pensiero di Dio. Gradualmente però mi sono resa conto che questo mondo richiede ben altro da noi... o persino che più uno si sente attirato da Dio e più deve “uscire da sé stesso”, nel senso di rivolgersi al mondo per portare ivi una divina ragione di vivere». È la stessa Edith Stein - canonizzata col nome di Teresa Benedetta della Croce, da lei scelto per la sua vita di consacrata - a invocare così la luce dall’alto, necessaria ad assolvere questo compito: «Chi sei, Luce che mi inondi e rischiari la notte del mio cuore? Tu mi guidi come la mano di una madre, ma se mi lasci non saprei fare neanche un passo solo. Tu sei lo spazio che circonda l’essere mio e lo protegge. Se mi abbandoni cado nell’abisso del nulla, da cui mi hai chiamato all’essere. Tu, più vicino a me di me stessa, a me più intimo dell’anima mia - eppure sei intangibile e di ogni nome infrangi le catene: Spirito Santo - Eterno Amore» (La mistica della Croce).

© riproduzione riservata

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: