venerdì 12 giugno 2015
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Nel 1953, a pochi mesi dall’uscita nelle sale di Luci della ribalta e dalla controversa espulsione di Chaplin dagli Usa, María Zambrano (1904 - 1991) pubblicò due scritti su “Bohemia”, rivista pubblicata a Cuba, isola dove ancora la filosofa spagnola viveva. Ora quei due testi sono raccolti nel volume "Il pagliaccio e la filosofia" (Castelvecchi, pagine 46, euro 7,50). La curatela è di Elena Laurenzi. Si tratta di due omaggi all’arte del clown che danno luogo a una meditazione filosofica profonda sul riso e sulla potenza metaforica del gesto comico. Figura della terra, della povertà e dell’umiliazione, il pagliaccio è a un tempo presenza sottile, capace di sublimare la gravità e l’inerzia della condizione umana attraverso la leggerezza, la gratuità e l’apparente inconsistenza del gesto. Nella piroetta di Charlot o nell’istantanea del pagliaccio che, inseguendo un nulla inafferrabile, fa apparire come per magia la possibilità delle cose, la pensatrice esiliata riconosce un’immagine della libertà del pensiero. Qui anticipiamo alcuni brani del primo scritto, dal titolo “Charlot o dell’istrionismo”.Sembra che la critica internazionale sia rimasta sconcertata dall’ultimo film di Charles Chaplin, forse proprio perché è l’ultimo: una sorta di riassunto o ricapitolazione di tutta l’opera della sua vita d’istrione. Vita d’istrione potrebbe essere il titolo di Luci della ribalta, poiché il suo tema è l’istrionismo, affrontato dalla prospettiva della verità della vita umana. Perciò verrebbe da dire che si tratta di un tema metafisico, e avrebbe potuto perfettamente dissolversi in una specie di Meditazione sull’istrionismo.  Il film di Chaplin, in fondo, è una meditazione. Ed è questo ad aver sconcertato i critici vari, che a quanto pare non sono disposti a concedere all’essere umano Charles Chaplin il diritto di tutti gli esseri umani a una confessione della propria vita e di quanto nella vita vi è di più essenziale, la vocazione. Ma ecco che, alla fine della vita, una volta portato a termine il suo compito estenuante, l’essere umano di carne e ossa e anima resta solo con se stesso e si guarda, e avverte quell’ansia così umana di giustificarsi. Comincia allora a meditare su quanto ha fatto e si domanda se, nel caso miracoloso di ricominciare daccapo, rifarebbe le stesse cose oppure, con l’esperienza acquisita, migrerebbe verso un modo diverso di vivere e di essere.  Quando questo genere di meditazioni matura in qualcuno che ha fallito non gli si dà credito: è l’amarezza della frustrazione – si dice –, pretende di riparare all’opera non compiuta per mezzo del pensiero, cioè cerca scuse. Per molta gente, infatti, il pensiero non è che una scusa. Ma qui avviene il contrario: si tratta di Charlot nel pieno della gloria che si affaccia sullo schermo per lasciar cadere la maschera e mostrare il volto vecchio e stanco. Questo è l’uomo, sembra dire, l’essere umano che volle offrirsi attraverso il riso e che ormai non ce la fa più, o forse non vuole. È Charlot o Calvero che parla, che getta la maschera? Forse sono entrambi. Charlot ha realizzato questo gioco sottile: ha gettato la maschera istrionica del personaggio inventato in sostituzione di quello di sempre e ci ha mostrato il suo vero volto, non nell’uomo Charles Chaplin, stracolmo di successo e fortuna – ora anche nella vita coniugale –, ma nel volto di un uomo fallito. Come chi ha fallito sgrana le ore andate: Se avessi trionfato. Se avessi fatto questo o quello o avessi evitato di fare quest’altro, ah, allora sì… Charles Chaplin, al colmo del successo, si sogna fallito, nei panni del vecchio clown che ormai non fa più ridere; sogna di percorrere il calvario del vecchio artista caduto in disgrazia e costretto a viverla fino in fondo, fino al punto di offrire la sua arte sulla scena della strada; la più legittima, dice: tra tutte le scene questa è la più legittima. È possibile che Charles Chaplin senta il peso del proprio trionfo, del trionfo di Charlot? O che, come altri artisti della grande scena, abbia nostalgia del palcoscenico della strada come del luogo dove si affermerebbe la legittimità della sua arte? Non c’è da stupirsi che il trionfo gli pesi e che lo senta persino un tantino illegittimo, dopo aver dato vita a uno dei personaggi più universali del secolo XX: Charlot, il vagabondo, l’uomo solo, senza patria, e senz’altro mestiere che quello della bontà e della grazia. Charlot, uno dei parenti più prossimi del nostro Don Chisciotte, come lui servitore innocente e indefesso della giustizia vivente e figura del derelitto che protegge, del gracile che prende su di sé il peso di tutti quelli che gli sembrano più fragili, e che alla fine risultano essere molto ma molto più forti di lui [...].  Ma che cos’è un istrione? In ogni arte c’è istrionismo, cioè rappresentazione. Ma vi sono arti che rappresentano le cose, le persone, gli eventi, e dove l’autore rimane dietro le quinte, invisibile. Istrione è chi, tramite un’opera letteraria o plastica, ci consegna un’immagine di sé e gioca con essa. Perciò il semplice attore è istrione solo in misura secondaria, meno grave, poiché rappresenta un ruolo che gli è stato assegnato e in cui non s’identifica. In un certo senso l’attore è l’opposto del-l’istrione, essendo in realtà il mezzo o il medium che presta la propria voce e il proprio corpo a un personaggio per incarnarlo. Il vero istrione non è l’attore: è il pagliaccio.  Il pagliaccio depone la maschera dell’uomo sociale e rispettabile per lasciare che l’anima giochi liberamente al cospetto del pubblico, nel cerchio che rappresenta il mondo, sotto il tendone che occulta e simbolizza il firmamento. Si sbianca il volto, lo trasforma in un calco della morte, lo immobilizza; la morte è il suo contenuto: la grande verità. La morte è la maschera del pagliaccio classico, una delle creazioni più geniali della nostra cultura occidentale. Da dove vengono la sua maschera e il suo gioco? Riceve le sberle rimanendo immobile; è il solo, in una civiltà che si dice cristiana, a porgere l’altra guancia allo schiaffo e l’intero volto alla beffa. Si espone, non soltanto perché ridano con lui, ma perché ridano di lui, per far ridere, così come altri – i pagliacci sociali, alcuni politici e le donne di dubbia reputazione – si espongono per far parlare. Si espongono integralmente al riso, che è beffa e anche scherno… In ognuno dei suoi gesti, per quasi mezzo secolo, il clown Charlot ha donato la grazia di ridere a quelli che piangono. E a quelli che non riescono nemmeno più a piangere, quel suo gesto magistrale che vale da solo un intero trattato di filosofia: quel suo stringersi nelle spalle mentre i piedi tracciano una piroetta. Che altro opporre alla stupidità ostinata di chi pure dovrebbe comprenderci e all’inesorabilità del destino, se non questo?Una piroetta che è  replica e commento, intelligenza completa della situazione e dell’assenza di rimedio e, nella disperazione, allegria: allegria per il semplice fatto di essere vivi e di poter soffrire e danzare. E ora, in Luci della ribalta, l’uomo Charles Chaplin cerca di giustificarsi. Di cosa? Semplicemente di non essere stato come Don Chisciotte o come Charlot, di non aver camminato per sentieri e strade anonime offrendo la propria anima, invece di proiettare la propria ombra sugli schermi chiusi nelle sale, dove è necessario pagare l’entrata per poterla vedere. E si rivolge alla propria Arte chiedendole conto del fatto di non essere stata azione redentrice, capace di dissolvere la miseria e il dolore dal mondo. Si presenta per dirci: non sono altro che un pagliaccio. E si rivolta contro quell’arte che gli ha offerto lo spazio del sipario per poter rappresentare la vita, fino alla Morte. Muore a due metri dalle luci della ribalta, mentre una ragazza danza.   Morire sulla breccia dev’essere l’aspirazione inconscia di ogni pagliaccio… e non solo del pagliaccio, ma di chiunque abbia offerto la propria vita e, cosa ancor più difficile e pericolosa, la propria immagine e la propria personalità per toccare il midollo della vita degli altri, il cuore del prossimo, ambiguamente trasformato in pubblico o in clientela. È come se, morendo davanti alla moltitudine, volesse dire: non siete stati pubblico, per me; in voi ho cercato il fratello. © 2015 Lit Edizioni srl Per gentile concessione
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