venerdì 21 luglio 2017
Una retrospettiva del pittore francese indaga una inedita ricostruzione del mondo attraverso cento opere
Autoritratto di Cezanne

Autoritratto di Cezanne

COMMENTA E CONDIVIDI

Se Milano fosse quella che ormai da tempo non è più, vale a dire una capitale culturale (quella morale – se mai lo è stata – è andata a farsi benedire nel 1992, l’anno in cui, dopo i brindisi socialisti, ci si è accorti che seguendo il celebre slogan Milano da tempo se l’era bevuta il malaffare che oggi imperversa in molte sfere pubbliche); ecco, se Milano fosse quella che non è più, invece di propinare mostre a grappolo costruite svuotando ogni volta il deposito di un grande museo straniero, avrebbe potuto guardarsi attorno e magari svegliarsi in tempo per stringere una sorta di joint venture con la Fondazione Gianadda di Martigny. Avrebbe ottenuto un risultato dignitoso: invece di tenere occupate le sale di Palazzo Reale per mesi con la brutta mostra dedicata a Manet (che chiude fra una decina di giorni), fatta noleggiando i fondi di magazzino del d’Orsay e giunta a Milano dopo il forfait di Torino, poteva collaborare e presentare al pubblico italiano – sia pure come seconda tappa – la stupenda antologica di Cezanne che si è aperta da qualche settimana a Martigny. La Fondazione svizzera, come giustamente vanta il presidente Léonard Gianadda, dal 1993, quando realizzò una straordinaria esposizione su Degas, ha costruito mostra dopo mostra un catalogo di rassegne che hanno di gran lunga anticipato e surclassato la moda molto italiana dell’impressionismo come macchina per accalappiare le allodole del turismo d’arte.

Le mostre monografiche della Fondazione non sono mai una semplice antologia di opere, ma un vero approfondimento del linguaggio dell’artista prescelto, attraverso prestiti pubblici e privati di altissimo calibro. Dopo Degas, nel 1996 Manet e via via Gauguin, Van Gogh, Monet, Renoir. E per questa progettualità (che significa anche autorevolezza nella richiesta dei prestiti) la Fondazione si è avvalsa negli anni delle competenze di Ronald Pickvance, storico dell’arte inglese, grande esperto di Van Gogh e Gauguin, scomparso nel marzo scorso. Nel 1991 Pickvance aveva pubblicato uno studio su Degas scultore, il lato meno valorizzato del grande artista poiché egli fu invece un vero innovatore della plastica di modellato. Chi voglia comprendere il modo di lavorare di Degas deve leggere il diario di Alice Michel, edito nel 1919, nom de plume dietro il quale si cela probabilmente un ghostwriter che mise in forma di racconto i ricordi di una modella dell’artista. Due anni dopo il libro di Pickvance, ecco la mostra su Degas che dà inizio al fruttuoso sodalizio al quale implicitamente dobbiamo anche l’ultima fatica della Fondazione Gianadda, questa mostra di Cezanne – con la direzione scientifica di Daniel Marchesseau – che avrebbe ben figurato in Italia, poiché da Milano ci vogliono quasi tre ore di treno per recarsi a Martigny e quindi si può immaginare che solo una minima parte del pubblico italiano la vedrà. E veniamo al dunque.


Intanto, si sarà notato che rispetto all’uso consolidato ho scritto Cezanne senza il classico accento acuto. Non è un refuso, ma come effettivamente andrebbe scritto e lo ricorda in una paginetta ad apertura del catalogo della mostra François Chédeville, membro della Société Paul Cezanne. Se i francesi lo scrivono così, chi siamo noi per fare i puristi delle convenzioni? Del resto, Chédeville ricorda che l’accento entra in uso nella scrittura francese dopo la quarta edizione del Dictionnaire de l’Académie française del 1762, e verrà definitivamente adottato nella settima edizione del 1878. Ci si sarebbe potuti aspettare che Cezanne seguisse questa grafia francese, scrive Chédeville, ma Cezanne era provenzale e i provenzali normalmente non usavano l’accento sulla e compresa fra due consonanti. E dunque nella famiglia Cezanne la privazione dell’accento ha preso il sopravvento, tant’è che Paul si firma sempre senza (perciò se per caso vedete un quadro firmato Cézanne, occhio che potrebbe essere un falso). È vero però che altri in seguito con l’accento.

Questa mostra intitolata Le chant de la terre, segue Cezanne nel suo “camminare” nei luoghi e negli spazi della Provenza. Chemin diventa quindi un concetto anche pittorico. E si fissa proprio, fin dai primi quadri, in immagini dove si vedono strade e stradine che si perdono nel paesaggio. Denis Coutagne individua quattro nomi che hanno intuito in profondità questa disposizione dello sguardo cezanniano che si lega al camminare. Il primo fu il critico John Rewald che sottolineò le «belles promenades» di Cezanne e Zola; poi venne Peter Handke con un libro sui colori della montagna di Sainte-Victoire, tradotto anche in italiano trent’anni fa; poi ancora Heidegger, che di passeggiate nella natura se ne intendeva (poiché alla fine si era esiliato dal mondo vivendo nella Hutte, la capanna fra i boschi); infine Jacqueline de Romilly che nel 1990 dedica ancora a Sainte-Victoire un libro.

Se è vero, come dice Baudelaire, che per capire un artista bisogna guardare il suo pubblico, ecco che le cifre parlano chiaro: Cezanne ebbe per collezionisti artisti supremi come Monet, Renoir, Gauguin, Degas, Redon, ma anche il dottor Gachet, quello reso celebre dai ritratti di Van Gogh, scrittori come Octave Mirbeu, imprenditori come Auguste Pellerin (che possedeva 150 opere), mercanti come Durand-Ruel (81), Paul Rosenberg (134) o, a distanze galattiche, Vollard che ne possedeva 647, acquistate in stock nel 1896 rilevando pressoché l’intero atelier dell’artista (e nel conto, nota Coutogne, non erano compresi disegni e acquerelli).

Il quadro che sancisce l’autorità che Cezanne esercitava nel milieu artistico è quello di Picasso: nel 1909, tre anni dopo la morte del pittore, dipinge una tela con lo stile cubista che già sembra ricomporsi in forme più solide, dove raffigura il cappello dell’artista. Come dicesse: Chapeau Cezanne! La mostra presenta un centinaio di opere, anche un gruppo di disegni notevoli che rivelano il grado espressionista e scompositivo-astratto che ritroveremo nei fauves, nel primissimo Mondrian (che certo meditò sugli alberi che Cezanne dipinse negli ultimi anni). Pensiero dipinto, scrive Alain Tapié nel catalogo. Una nuova visione costruttrice dello spazio e una riduzione alla semplicità geometrica delle forme (il cilindro la sfera e il cono, come disse il pittore), che lo studioso risolve in tre aggettivi fondamentali: «semplice, sereno, essenziale». È già la modernità, ovvero la nuova visione dello spazio (cubismo, ma meno il futurismo, perché Cezanne è come uno scultore, fissa il movimento nello spazio ricreandone le forme corporee e le grandi strutture naturali). Ecco i suoi paesaggi decostruttivi, ma in realtà ricostruttivi; le sue tele di bagnanti nel paesaggio; le nature morte eterne e “povere” allo stesso tempo, vere metafore dell’umano; o quadri della natura che sembrano anticipare i caleidoscopi di forme e colori del cubismo analitico fino alle scheggiature di Kupka. Un caposaldo del nostro universo visivo, da guardare pensando alla fisica dei frattali e alle scoperte della matematica non euclidea.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: