mercoledì 27 gennaio 2016
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Il titolo del concerto che gli dedicherà il Comune di Milano (con Area M e la Civica Scuola di musica Claudio Abbado) il giorno del suo compleanno, ovvero venerdì 29, è chiarissimo: «Novant’anni suonati ». Perché quel giorno Franco Cerri compirà appunto novant’anni: e non poteva in fondo che festeggiarli sul palco, nella sua città, con ingresso gratuito per la cittadinanza, in uno storico teatro (il Dal Verme) a pochi passi da dove sorgevano – purtroppo il verbo è al passato, non esistono più da tempo – alcuni locali nei quali Cerri ha fatto la storia del jazz. E non soltanto del jazz.  Chitarrista di fama mondiale e tocco delicato quanto originalissimo, Cerri ha inciso più di cinquanta dischi (quello nuovo esce proprio il 29), scoperto talenti, insegnato a migliaia di giovani, lavorato con Gorni Kramer, Natalino Otto, i Cetra, Lauzi, Jannacci, Mina, fatto radio, tv, teatro, persino spot del Carosello. Ma soprattutto Cerri ha suonato con monumenti del jazz italiano e mondiale quali Renato Sellani, Enrico Intra e i vari Django Reinhardt, George Benson, Jim Hall, Billie Holiday, Dizzy Gillespie, Barney Kessel. Il fatto è che di Cerri, vero e proprio monumento della nostra musica, “papà” di molti cantautori oltre che di intere generazioni di jazzisti, si potrebbero scrivere pagine e pagine semplicemente mettendo in fila nomi, titoli, numeri, premi di una carriera inimitabile. Però poi accade di incontrarlo, magari nella sua abitazione, che trasuda musica non meno che pudore. Ed allora si ha la conferma che sono la discrezione, e ancor più la gentilezza, le cifre stilistiche decisive dell’uomo Cerri. Il quale ci accoglie mostrandoci un antico violoncello al quale, dice, non si decide a cambiare le corde per capire se può suonarlo come quando suonava il contrabbasso e vedere cosa può venirne fuori: perché è ancora curioso come quando da bimbo scoprì la musica. Ma di quel bimbo, Franco Cerri ha mantenuto anche dolcezza e pulizia, un nitore etico che fa il paio col rigore artistico del suo mestiere e ancor meglio di questo spiega perché egli meriti non un festeggiamento, ma proprio una celebrazione. Specie di questi tempi dove pare fuori moda uno come lui: e che bello, però, essere fuori moda quando significa da novant’anni dimostrare nella vita, in silenzio, quanto la grandezza di un artista non possa che dipendere dalla coerenza, e dalla pulizia, di essere perbene. Qual è il suo primo ricordo della musica? «Mi viene da un signore che stava al pia- no di sopra della casa in cui vivevo coi miei, quando ero piccolo: suonava la chitarra cantando stornelli. I brani non mi piacevano, ma mi interessava il suono dello strumento. Ho tormentato mio papà per anni finché una sera è rincasato con una chitarra in un sacchetto e mi ha detto: “È costata 70 lire ma ora per un maestro non ci sono più soldi; vedi tu”». E lei che cosa ha fatto? «Era il ’43, c’era la guerra e non era facile. Incontrai per caso Giampiero Boneschi, un amico (futuro discografico e non solo, figura storica della canzone italiana, ndr), e mi disse che aveva iniziato a studiare pianoforte. Andavo da lui, suonavo le corde e lui mi diceva che nota era. Poi imparavo il minore e le altre cose da solo, provando. E con Giampiero ho imparato un po’ di brani americani. Fino a quando, suonandoli nei cortili del dopoguerra, mi sentì Gorni Kramer: e quasi mi costrinse, vincendo la mia ritrosia, a seguirlo in teatro coi Cetra e Natalino Otto. Devo molto a Kramer, anche se mi metteva alla prova di continuo: prima avevo fatto il muratore, il ragazzo degli ascensori cioè quello che pigiava i bottoni, il fattorino e l’impiegato». Sono stati quelli nei cortili i suoi primi concerti? «No, in guerra andai negli ospedali a suonare per i feriti. Mio padre era un mutilato del primo conflitto mondiale, l’avevano mandato a 17 anni in prima linea e una bomba gli aveva fatto perdere la mano sinistra, l’occhio sinistro e alcune dita della mano destra. In quegli ospedali ho visto persone senza gambe e senza braccia, praticamente drogate per non sentire dolore: è tremenda la guerra. Li sogno ancora, quei volti». Quanto le hanno dato i suoi genitori?  «Tanto, tutto. Papà Mario era del 1900, mamma Rosa del 1902, poi è venuto Sergio che è del ’23, io nel ’26 e Rita che è giovanissima, del 1935… La famiglia è sempre stata il centro di tutto: Sergio ha anche cantato con me. E l’esempio di papà era unico, faceva l’impiegato scrivendo con grafia nitidissima e giocava a calcio come portiere: malgrado tutto…». Prima accennava alla droga. Nel jazz ne è circolata tanta, come ha fatto a starne fuori? «Un giorno Chet Baker mi additò ad altri colleghi deridendomi perché ero l’unico che non prendeva nulla. Sono orgoglioso di quella “brutta figura”, chiamiamola così, sono felice di non aver preso mai niente. Conobbi Billie Holiday, era dolcissima, ma prendeva di tutto e doveva cantare reggendosi a una sedia. Che tristezza, quando pochi mesi dopo aver suonato insieme seppi che era morta. Proprio Chet mi confessò che per lui era stato quasi normale drogarsi: l’aveva scelto Charlie Parker, gli faceva quasi da papà. Però Parker si drogava e anche lui ci cascò dentro: per sentirsi al passo col suo mito». Che bilancio fa di questi novant’anni? «Sono stato fortunato. Uno come Grappelli, storico violinista, volle me per formare un quintetto dopo la morte di Reinhardt che era un padre del jazz, e facemmo tour in tutta Europa. Oscar Peterson mi sentì in una jam session casuale e quando salì lui sul palco pretese gli rimanessi accanto. Ho scoperto talenti come Dado Moroni: lo sentii a 14 anni, lo portai in radio e tv e dopo non molto iniziarono a contenderselo i grandi di New York…». La spaventa il futuro? «So che esiste e che potrebbe contenere certe cose legate alla mia età. Ma non mi spaventa, no. Non ci penso. Sono sano, felice, qualcuno mi riconosce per strada, un giorno alla settimana insegno ai giovani, scrivo, faccio concerti… E poi c’è la famiglia. Sopravvivere a mio figlio Stefano è stato terribile, mi manca tanto anche come musicista. Ma c’è Nicola, forse il più musicale di tutti noi, c’è mia moglie Marion. Sono felice di quanto mi è accaduto». Musica compresa, dunque, ovviamente… «La chiamo la medicina, la musica. Vede, se fai di un lavoro è una passione è il massimo, e in questo sono proprio fortunato. Certo, non le nego che mi piacerebbe saper suonare un po’ meglio…».
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