venerdì 3 settembre 2021
Il giocatore della Reyer Venezia che nel 2011 ha fondato “Slums Dunk”: «La nostra soddisfazione è vedere oggi i ragazzi delle baraccapoli in grado di costruirsi un futuro»
Bruno Cerella con Tommaso Marino in Kenya

Bruno Cerella con Tommaso Marino in Kenya - Simone Raso per Slums Dunk Onlus

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Diceva il grande Archimede: «Datemi una leva e solleverò il mondo». A Bruno Cerella è servito invece un pallone da basket per dare un “trampolino” ai ragazzi delle zone più disagiate dell’Africa. Tutto merito di un progetto originale, che oggi festeggia i dieci anni d’attività. Geniale già nel nome: “Slums Dunk”, un gioco di parole tra slam dunk (schiacciata) e slum (baraccopoli). È stata battezzata così la onlus fondata e portata avanti con l’amico e collega cestista Tommaso Marino. Tanta «incoscienza » dicono loro e un percorso inimmaginabile, come non manca di ribadire lo stesso Cerella: «Nel 2011 siamo atterrati a Nairobi pensando che in aeroporto ci fossero leoni e zebre ad aspettarci… Non avevamo la minima idea di dove stessimo andando. Oggi, dieci anni dopo, abbiamo attività in quattro diversi continenti, ragazzi e ragazze convocati nelle loro nazionali, borse di studio, esperienze all’estero...». Un mattone dopo l’altro sono nate così le Basketball Academy, luoghi di aggregazione in cui mandare a canestro i giovani delle periferie del pianeta, per far sì che questo sport li aiuti prima di tutto a fare centro nella vita. È un progetto che non finisce di stupire, come la carriera di Bruno, oggi 35enne, che si prepara a vivere ancora una stagione da protagonista in Serie A con la Reyer Venezia. Ne ha fatta di strada il ragazzo di Bahìa Blanca, argentino con cittadinanza italiana (grazie ai nonni paterni), arrivato nel nostro Paese non ancora diciottenne. Una scalata poderosa attraverso tutte le serie minori: Massafra, Senise, Salerno e soprattutto Potenza in Serie B prima di spiccare il volo verso i palcoscenici del massimo campionato. 194 centimetri, fisico possente, oggi può vantare 2 scudetti, 2 coppe italia e 1 supercoppa italiana con l’Olimpia Milano, e 1 scudetto e 1 fiba europe cup e 1 coppa italia con la Reyer Venezia. Senza dimenticare la maglia azzurra con la Nazionale di Recalcati. Tante soddisfazioni in campo, ma anche fuori, per un giocatore a cui il basket non basta: «È la cosa più importante della mia vita, ma non l’unica».
Che cosa l’aveva colpita arrivando in Africa dieci anni fa?
A Nairobi ci ha segnato vedere che i ragazzi dopo la scuola avessero a che fare con criminalità, prostituzione, droghe e violenza. È nata lì l’idea di creare una Basketball Academy in cui formiamo allenatori “locali” perché vogliamo respon- sabilizzare le persone. Noi ci occupiamo della parte sportiva, per il resto collaboriamo con altre associazioni che operano lì.
Quali sono state le prime difficoltà?
Innanzitutto quelle materiali: ci volevano campi e canestri, il basket è tra gli sport meno praticati. Essendo il Kenya un’ex colonia britannica vengono prima calcio, corsa o rugby a 7… Nel 2014 abbiamo costruito il primo campetto nella baraccopoli di Mathare a Nairobi. Qui vivono schiacciate quasi 100 mila persone in appena 1,5 chilometri quadrati con problemi di acqua, elettricità e servizi igienici. La metà sono ragazzi sotto i 18 anni in un contesto dove vige la legge del più forte. Ma la cosa più difficile è far capire che non andiamo lì solo per regalare scarpe, magliette o palloni…
Qual è la vostra missione?
Il nostro è un percorso educativo, non solo sportivo. Vogliamo trasmettere valori importanti: attraverso il gioco del basket possiamo insegnare l’amicizia, il rispetto, la disciplina… La nostra missione non è scovare talenti ma dar loro un’opportunità per la vita. Nella baraccopoli c’è solo la scuola elementare e i ragazzi si fermano a quella perché le famiglie non riescono economicamente a mandarli a studiare in città. Per questo la nostra soddisfazione più grande è essere riusciti a dare oltre 50 borse di studio ai giovani che si sono distinti per capacità, serietà ed educazione: così potranno completare il loro percorso in una struttura privata dove avranno la possibilità di studiare, mangiare e giocare a basket, ma soprattutto potranno costruirsi un futuro. C’è una vittoria più bella di questa?
E oggi Slums Dunk ha messo radici anche in altri continenti.
In Africa abbiamo già due Basketball Academy in Kenya e due in Zambia. Ma abbiamo anche avviato progetti in Cambogia e in Argentina col club dove sono cresciuto. Ad oggi abbiamo coinvolto oltre 5mila ragazzi e ragazze under 18. C’è anche l’idea di lavorare per i giovani disabili: pensiamo di far qualcosa insieme con la Comunità Papa Giovanni XXIII, con cui già collaboriamo in Zambia.
Quest’estate siete stati protagonisti anche a Milano.
Sì con il progetto “Playground Stelvio: sport e comunità”, abbiamo rifatto un campo (in viale Stelvio) nell’ottica di rendere quest’area un punto di incontro per tutto il quartiere. Vorremmo organizzarvi anche eventi formativi e culturali. E poi pensiamo che lo sport possa essere di grande aiuto in un momento difficile come questo con i ragazzi rimasti tanto tempo chiusi in casa. Il progetto di Milano è importante, perché ci dà la forza per testimoniare anche in Italia qualcosa che va oltre il basket.
Da quante persone è formata la squadra di Slums Dunk?
Siamo circa 30 volontari, tutti doniamo del tempo in maniera gratuita. Abbiamo anche tanti giocatori che ci sostengono. Una volta all’anno scendiamo nei diversi Paesi, a luglio con Tommaso siamo tornati in Kenya: è stato bello ritrovare le persone che si dedicano al progetto, sono momenti preziosi che fanno bene al cuore.
A luglio ha spento 35 candeline, sta pensando al momento in cui dirà basta col basket?
No. Ho ancora un altro anno di contratto con Venezia e voglio godermelo per provare a vincere qualcosa e competere ad alti livelli. A fine stagione valuterò se ritirarmi o meno. L’anno scorso è stato un anno difficile per la frattura alla caviglia e per il Covid. Ma adesso mi sento pronto e ottimista per la nuova stagione.
Lei è arrivato in Italia nel 2004 ma non per giocare a pallacanestro.
Volevo fare solo un’esperienza di vita, imparare la lingua. E invece è andata diversamente… Non pensavo di arrivare a certi livelli, ma non era nemmeno il mio obiettivo. Mi sono goduto tutto il percorso senza pressioni, divertendomi e pensando a fare anche qualcosa fuori dal campo.
Quali altri obiettivi ci sono nel suo futuro?
Voglio creare una famiglia ed avere dei figli. È un mio grande desiderio, mi impegnerò per questo: sono scelte importanti che richiedono tanta responsabilità. I miei genitori mi hanno trasmesso la costanza nel portare a termine quel che fai, la dedizione e la volontà di pensare sempre in grande, per superare ogni ostacolo anche nei momenti più difficili.

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