venerdì 16 giugno 2023
Torna in libreria la raccolta poetica del grande letterato del Seicento. La natura, la mistica e il riconoscimento dell’assolutezza divina attraverso la celebrazione di Dio nell’umano peregrinare
Angelus Silesius

Angelus Silesius - WikiCommons

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Non esattamente uno pseudonimo e neppure un nom de plume, tanto meno un eteronimo alla Pessoa. Nessuna delle strategie abitualmente adottate dagli scrittori per mascherare o alterare la propria identità descrive in modo adeguato la vicenda di Angelus Silesius, al secolo Johannes Scheffler, il grande poeta del Seicento tedesco il cui capolavoro, Il viandante cherubico, torna adesso in libreria in un’essenziale ed elegante antologia allestita da Gio Batta Bucciol per Molesini (pagine 180, euro 18,00; www.molesinieditore.it). Più che a un espediente letterario, in questo caso la decisione di cambiare nome rimanda alla consuetudine della consacrazione religiosa: scegliere di chiamarsi in un modo diverso non significa rinnegare, bensì portare a pienezza sé stessi.

Così era stato per Scheffler, nato nel 1624 a Breslavia in una famiglia di nobiltà protestante, formatosi tra Strasburgo, Leida e Padova (qui ottenne, nel 1648, la laurea in medicina e filosofia), convertitosi al cattolicesimo nel 1653, sacerdote dal 1661, morto nel 1677 nella stessa Bratislava. Riassunti in questo modo, gli eventi essenziali della sua biografia non rendono giustizia alla ricchezza e alla complessità di un’esistenza che da un lato si intreccia con i sommovimenti di un’epoca fortemente segnata dalle tensioni della Riforma e, dall’altro, si inoltra nelle profondità dell’illuminazione mistica. Quelli di Silesius sono gli anni nei quali il Barocco trionfa in tutta Europa, manifestandosi ora nell’esplosione delle forme e ora nel rigore dell’argomentazione, fino alla peculiare declinazione del dramma allegorico tedesco sulla quale si soffermò Walter Benjamin.

Lettore appassionato dell’opera di san Giovanni della Croce e conoscitore esperto della visionaria teologia di Jacob Böhme, Silesius acquisisce dagli autori a lui contemporanei, in particolare da Daniel Czepko, la modalità espressiva dell’epigramma e la rielabora nei sei libri del Viandante cherubico, composti nell’arco di diversi decenni (la prima edizione risale al 1657) e destinati a esercitare una duratura influenza in ambito speculativo, religioso e letterario. Di Silesius si occuparono, sia pure in maniera discordante, due giganti del pensiero ottocentesco come Hegel e Schopenhauer, ma non meno evidenti sono le tracce che si possono rinvenire in Heidegger. Non di rado la figura del poeta si trova accostata a quella di Meister Eckhart, nel segno di una continuità mistica che ha avuto anrettamente, che in Italia studiosi illustri. A fianco del Viandante cherubico, che rimane il più noto fra i testi di Silesio, va collocata almeno un’altra raccolta poetica, Gaudio sacro dell’anima, senza dimenticare la ragguardevole produzione di natura apologetica e polemica.

Benché radicata nel proprio tempo, come dimostrano le ricorrenti dispute sulla maggiore o minore “cattolicità” dell’ispirazione complessiva, quella di Silesius è anzitutto un’avventura interiore, che guarda all’universalità dell’eterno più che alle contingenze storiche. L’una, però, non nega mai le altre. Sintomatica è appunto la struttura del nome che Scheffler adotta nel momento in cui chiede di essere accolto nella Chiesa di Roma. Se Angelus rinvia alla prospettiva celeste, l’aggettivo Silesius, ossia della Slesia, ribadisce l’elemento terrestre, necessario per intraprendere il viaggio del quale i versi del poeta rendono conto. Cor per la sua scelta di distici presentati con il testo tedesco a fronte, Bucciol preferisce rimandare a un concetto simile ma non coincidente con quello tradizionale di pellegrinaggio. In apparenza, infatti, il viandante non si preoccupa troppo della destinazione, ma solo perché «Dio è il mio bastone, la mia luce, il mio sentiero, la mia meta, il mio gioco, / mio padre, fratello, figlio e tutto quello che voglio », come recita uno dei distici selezionati nel volume.

Nella concezione di Silesius, il riconoscimento dell’assolutezza divina comporta la celebrazione di Dio nell’umano, secondo la logica paolina dell’Incarnazione. La formulazione di questo, che è veramente l’assunto centrale dell’intera opera, può suonare a tratti sconcertante (« Inconcepibile! Dio ha perduto sé stesso. / Per questo egli vuole rinascere in me»), ma l’entusiasmo del poeta non va frainteso in senso panteista. Il Dio che Silesius canta nell’ossimoro di «puro lampo e oscuro nulla» è in effetti il Dio personale, che «presta la stessa attenzione al gracidio della rana / e al trillo che gli invia l’allodola ». Come ogni mistica, anche quella del Viandante cherubico è mistica della quiete e della mitezza, del fervore e dell’incandescenza: «Qui giace un Serafino – si legge nel distico dettato davanti alla tomba di san Francesco – e mi meraviglio che in tutto questo / incendio di fiamme sia rimasto ancora indenne il masso».

Fortissimo è il sentimento della natura, sancito dai celeberrimi versi sulla «rosa senza perché», che «fiorisce perché fiorisce», e sostenuto dalla convinzione che «niente è imperfetto: il ciottolo pareggia il rubino, / la rana è bella quanto il serafino» (è uno dei luoghi in cui riaffiora con chiarezza l’influsso della cosiddetta Teologia tedesca, il trattatello medievale che svolse un ruolo non trascurabile nella riflessione di Martin Lutero). Silesius padroneggia con maestria la strumentazione poetica ed è capace di variazioni sorprendenti sul tema, squisitamente barocco, del “nonsoché”: «Cos’è l’eternità? Non è questo né quello, / né attimo, né qualcosa, né nulla: essa è non so che cosa». Alla fine, però, non è la letteratura a prevalere, ma l’esperienza – o viandanza – che la letteratura permette di compiere. Lo afferma con serena determinazione l’ultimo degli oltre 1.600 aforismi che si susseguono nell’opera: «Amico, ora basta. Se vuoi leggere di più, / va’ e diventa tu stesso scrittura ed essenza».

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