giovedì 13 luglio 2017
Con la riunificazione tedesca dopo l'89 lo scenario cambia e la Ddr subisce il terremoto degli stili di vita dell'Ovest. «E oggi tanti sono più poveri di prima»
Lo scrittore tedesco Clemens Meyer

Lo scrittore tedesco Clemens Meyer

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C’era una volta l’Est. È un ritratto intenso, malinconico e disilluso dell’infanzia e dell’adolescenza ai tempi del Muro di Berlino quello che emerge dalle pagine di Eravamo dei grandissimi (Keller editore, traduzione di Roberta Gado e Riccardo Cravero), il pluripremiato romanzo d’esordio del giovane scrittore tedesco Clemens Meyer, uscito in Germania una decina d’anni fa e ormai diventato un classico della letteratura post-1989. Una storia in gran parte autobiografica che non si svolge nella grande capitale della Guerra fredda bensì in una grigia periferia di Lipsia – «nell’est della Germania est» –, che prende forma attraverso una scrittura essenziale e potente, capace di trasfigurare in emozioni i ricordi dello stesso Meyer, che quegli anni li visse in prima persona. Il Muro non è una presenza fisica ma uno spartiacque temporale nelle vite di un gruppo di ragazzi, le cui storie si intrecciano attraverso una narrazione priva di un preciso ordine cronologico. L’amicizia tra Daniel, Paul, Mark e Rico è l’unico legame che consente loro di andare avanti in una realtà urbana in balia di un passaggio storico epocale che loro stessi non comprendono, e che finirà col travolgerli. Negli anni che precedono la riunificazione del paese li troviamo ancora bambini, la caduta del sistema socialista segna il loro passaggio all’adolescenza in uno sfondo di violenza politica e sociale, furti di auto, alcol, risse e carcere che ha già fatto accostare la Lipsia di Meyer alla Edimburgo raccontata da Irvine Welsh in Trainspotting. Ma sullo sfondo, nel primo caso, c’è uno degli eventi-chiave della storia europea del XX secolo. «La frammentarietà della stuttura del romanzo – ci spiega lo scrittore tedesco a Firenze, dov’è stato ospite del premio Von Rezzori – rispecchia il carattere frammentato e disarticolato dei personaggi. Non volevo raccontare dei valori o dei disvalori, bensì rappresentare la ribellione, il miraggio di questi giovani e lo stato di ebbrezza nel quale si trovavano a cavallo della cosiddetta 'svolta', tra speranze, disillusioni e il senso di vuoto tipico del post-1989». Gli aspetti autobiografici costituiscono le fondamenta della costruzione di un romanzo che mescola sapientemente gli echi della grande storia con le piccole storie individuali dei giovani protagonisti, la loro rabbia incontrollata, i loro sogni. «Sognavamo una vita nuova, un’amicizia o un amore che durasse all’infinito. Parafrasando il grande Sergio Leone – prosegue Meyer – ho cercato di costruire qualcosa di simile ma un’epopea dell’Europa orientale, quasi un “C’era una volta l’est”. E ho provato a ripercorrere quei momenti storici cercando di generare un epos quasi cinematografico». Il senso di spaesamento comune anche ad altri scrittori dell’est di fronte alla caduta del regime comunista giunge con Meyer a un livello estremo, poiché Eravamo dei grandissimi (il cui titolo originale è Als wir träumten, letteralmente “Quando sognavamo”) è un romanzo privo di quegli elementi autoconsolatori e rassicuranti presenti in opere simili. Quei ragazzi non sognavano l’Ovest: quello era un sogno per gli adulti; la cupa, asfittica realtà urbana dell’est era in realtà la loro dimensione. Dopo l’9 novembre 1989 l’umanità marginale raccontata nel libro finisce così per farli precipitare in un abisso ancora più profondo. La loro vita cambia trasformandosi in una folle corsa, i “grandissimi” diventano dei piccoli criminali di strada che rubano pizze surgelate nei supermercati, rapinano anziani inermi, distruggono automobili e vetrine, passano le giornate a ubriacarsi e poi fanno a botte con bande rivali, finiscono nel carcere minorile ma vengono rilasciati dopo poco perché hanno appena quattordici anni. «Dall’alcolismo tipico dell’est si passerà alla tossicodipendenza importata dall’opulenta Berlino Ovest e il gruppo di amici si sgretolerà soprattutto a causa della droga, insieme al mito dell’Ovest». Le seicento pagine del romanzo di Meyer scorrono veloci come le avventure di questi ragazzi, con una profondità e una poesia che non indugiano in alcuna forma di moralismo, né tantomeno in un ripiegamento nostalgico sul passato, la cosiddetta Ostalgie, o nostalgia della DDR. «È vero, esiste ancora un forte legame sentimentale con quell’epoca, è un fenomeno che appare strano anche a me. Credo che la gente rievochi quei tempi ricordando soprattutto il senso di sicurezza dell’epoca, poiché ufficialmente nella Repubblica democratica tedesca non esisteva la disoccupazione, i rapporti tra le persone erano tutti regolamentati, tutti avevano posto all’asilo per i propri figli, diritto alle cure mediche e alle attività ricreative nel tempo libero. Ma molto spesso si ricordano soltanto le cose positive dimenticando quello che mancava, a cominciare dalla libertà di espressione e di stampa». Sono trascorsi quasi trent’anni dalla caduta del Muro e dalla fine di quel mondo, eppure sul piano psicologico il processo di riunificazione non può dirsi tuttora concluso. «Ci troviamo oggi in una situazione difficile dove il divario tra poveri e ricchi si allarga sempre più – conclude Meyer – è quindi normale che talvolta si tenda a ricordare il passato mitizzandolo. Molti continuano a essere insoddisfatti e a sentirsi trattati come cittadini di seconda categoria. Io percepisco chiaramente che i miei coetanei cresciuti all’ovest hanno quasi un Dna diverso dal mio, perché allora c’erano tante persone che al socialismo avevano creduto. Chi ha trascorso l’infanzia e la giovinezza all’ovest ha una formazione e dei pensieri diversi dai miei. Per veder finalmente concluso questo processo ci vorranno ancora molti anni, forse una cinquantina, comunque non prima che siano morti quelli della mia generazione».

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