martedì 31 maggio 2022
"Il figlio della lupa", “romanzo sloveno scritto in italiano” da Anton Špacapan Vončina e Francesco Tomada, è la storia di un paese di confine tra guerra e fascismo
Panorama di Čepovan oggi

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Čepovan, in italiano Chiapovano, frazione di Nova Gorìca, 18 chilometri dal confine. Ma anche in austriaco si chiamava Chiapovano: scherzi di questa terra eternamente di frontiera, dove più delle guerre sono decisive le paci, a causa delle quali “i confini vengono tirati come una tenda greve” tagliando in due le case, le famiglie, i popoli, i singoli individui. E’ a Čepovan, oggi Slovenia, che è ambientato il libro Il figlio della lupa (Bottega Errante Edizioni), “romanzo sloveno scritto in italiano” da Anton Špacapan Vončina e Francesco Tomada, intervistati da Andrea Visentin alla XVIII edizione di èStoria a Gorizia.

Anche a Čepovan la pace dopo la prima guerra mondiale aveva tirato la sua tenda greve, portando fin là un’Italia all’inizio inoffensiva, poi, con Mussolini, sempre più invadente. “Comando Squadrista, Attenzione! – è l’ordine affisso sui muri in data 3 febbraio 1931 – Si proibisce nel modo più assoluto che nei ritrovi pubblici e per le strade di Chiapovano si parli o si canti in lingua slava. Le squadre del Fascio faranno rispettare il presente ordine con ogni mezzo”.

Ma cosa può accadere in un piccolo paese come Čepovan (365 anime dice su Internet il dato ufficiale, fermo al 2002…) quando agli abitanti si ordina di rimuovere le imposte dalle finestre e la lingua madre dalle loro bocche? Che ribellioni vi serpeggiano quando il maestro di scuola indossa una divisa fascista e porta con sé una pistola? Cos’altro doveva succedere in un villaggio che solo 15 anni prima si era trovato nel “centro dolente del mondo, dove due eserciti – quello italiano e quello austroungarico – mandavano al macero centinaia di migliaia di soldati per rimanere immobili nelle trincee”? La Bainsizza e Caporetto, nomi di grandi battaglie e inutili stragi a due passi da qui, avevano lasciato solo “pendii senza più alberi, tracce innaturali di trincee, rifugi, baracche di lamiera, stanze deserte…”. E tanti cimiteri. “Cosa significa vivere circondato dai cimiteri? – è la prima di tante domande all’inizio del romanzo – Significa che già da bambino cresci con il presagio di una fine. Che non proverai mai quel senso di onnipotenza che rende gli adolescenti quasi invincibili”. E’ vero, è terra di ossari e cimiteri, questa, dove anche i morti, sepolti con o senza nome, dimostrano quanto sia astratto il concetto di confine.

Ascolti i due autori e pensi che solo qui un simile libro sarebbe potuto nascere, nell’unica regione in cui la prima guerra mondiale la si respira ancora in ogni angolo, e la seconda presenta tuttora il conto nelle memorie di chi piange storie di uguali ferocie, ma di segni politici opposti. “Non mi sento transfrontaliero, io come Tomizza mi sento solo uomo di queste zone, sangue italiano e sloveno insieme – prova a spiegare Špacapan Vončina, classe 1975 –, mia nonna mi ciacolava in italiano sulla culla, la ricchezza di possedere due lingue è che la mente è in continua sfida tra i due modi che ha per chiamare qualcosa. Se me ne togli una, mi resta mezza capacità di definire il mondo”.

Come ogni romanzo storico, “Il figlio della lupa” intreccia il vero e il verosimile: i “fatti di Čepovan”, dove il regime fascista inviò due funzionari a “mettere ordine”, in fondo sono ciò che accadde lì o forse altrove. E i bambini, le donne, i vecchi magari non sono esistiti, ma danno voce alle piccole storie sconosciute che la grande storia ha fagocitato. “Abbiamo scritto una fiaba politica e per farlo ci siamo documentati, abbiamo raccolto scatoloni di lettere, testimonianze, verbali di interrogatori della comunità che veniva schedata”, spiega Tomada. “Alcuni racconti me li ha tramandati mio padre, era uno degli alunni di Čepovan”, aggiunge Špacapan Vončina. Nessuno dei due, però, ci sta a specificare quali dei personaggi siano veri e quali inventati, né tantomeno quali siano i nomi e quali gli pseudonimi: “Sono passati molti anni, alcuni testimoni non ci sono più, altri ancora resistono e proprio questi hanno espresso la volontà di non venire menzionati con i loro nomi”.

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