venerdì 3 aprile 2020
A cinque secoli dalla morte (6 aprile 1520) Roma aveva aperto una grande esposizione che al momento è stata chiusa per l'epidemia. Un ritratto un po' diverso da come di solito lo si immagina
La maschera di Raffaello sotto la Luna
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Aveva fatto appena in tempo ad aprire i battenti alle Scuderie del Quirinale la mostra per il cinquecentenario della morte di Raffaello (6 aprile 1520) che la legge marziale sanitaria le ha imposto di richiuderli. Avrà, almeno, fra pochi giorni Raffaello il suo solitario picchetto d’onore a porte chiuse per il giorno dell’anniversario? Lui sicuramente lo vorrebbe anche per non essere da meno di Leonardo l’anno scorso e, il prossimo, Dante. Chi sono proprio io a dover pagare il dazio del Covid–19? Manco morto. Rendiamogli onore, sperando che prima o poi la mostra riapra.

Non starò a indulgere su cose che negli ultimi decenni sono emerse dagli studi con grande evidenza: Raffaello fu un genio polivalente e da questa molteplicità di doni trasse tutte le possibilità costruendo quello che già in passato ho chiamato una factory (pensando proprio a Warhol e alla sua capacità di costruire una identità di brand e una estetica comunicativa, attorno a una officina di idee e prodotti dove, come sappiamo dagli studi recenti su Raffaello, lavoravano decine di apprendisti e collaboratori).

Giustamente, nel catalogo della mostra, edito da Skira, si sottolinea la natura sperimentale della sua invenzione pittorica secondo un ordine metodologico nel quale Raffaello ha saputo conciliare l’esempio dell’antico e la nuova maniera che ha contribuito a imporre. Francesco Paolo Di Teodoro ha appena dedicato un saggio edito da Olschki alla celebre Lettera a Leone X (qui sotto ne parla Michele Dolz), che si pone davvero come l’espressione teorica di questo “sperimentalismo”, che appunto allarga lo sguardo su Roma, le rovine e il futuro, come farebbe un artefice dell’opera d’arte totale. Raffaello espose al Papa una idea sostenuta da un gigantesco “occhio divino” – un panottico – che aveva nell’artista il fuoco capace di fondere memoria e innovazione.

Quale apparente leggerezza questo portento della natura che fece tutto in poco tempo, soltanto 37 anni. Ma sarebbe sbagliato pensarlo come un essere etereo e imperturbabile dotato di una psiche eternamente bambina, doveva anzi essere tanto carnale quanto elegante nel fare. Ma la carne, si sa, porta anche malinconia. Nel 1926 Henri Focillon in un saggio ancora ricco di suggestioni (completamente ignorato nella bibliografia di quasi trenta pagine e centinaia di voci alla fine del catalogo, ma, curiosamente, esposto in vendita nel bookshop) scriveva che «la sua storia sembra una leggenda. È priva di avvenimenti tristi, abbonda di immagini gioiose, di ricordi felici. Gli uomini... per deificarlo gli sottraggono il magnifico privilegio della sua umanità».

Perché non è mica vero che la vita di Raffaello sia stata solo rose e fiori, i lutti sono venuti presto nella sua esistenza. A cominciare da quando a otto anni perse la madre e a undici venne pressoché abbandonato dal padre al suo destino. E chi si occupò di lui? Ci fu un’anima dolce, una figura materna che stemperò la sua “tristezza”? Se si osservano gli affreschi di Raffaello a Roma ecco – scrive ancora Focillon – che «scopriremo tutta la virilità del Rinascimento, e anche le sue inquietudini… L’ordine del sublime non è confinato al mistero, al dolore e all’oscurità, esso si espande nella calma e nella luce».

C’è ombra anche là dove il sole regna sovrano, e quelli che apparentemente giocano a essere più leggeri dell’aria, spesso, hanno provato e sopportato le offese di un mondo che si comporta come la natura matrigna anche con quelli più dotati di talento. Ma a proposito di dolcezza materna. Guardate nonna Anna che fa strani pensieri e osserva con tenerezza il nipotino Gesù che già cerca d’impartire la lezione (il compito) al suo coetaneo Giovannino: parlo, è chiaro, della Madonna del divino amore (1516). La madre della madre di Dio, col volto raggrinzito dagli anni, eppure piena di desideri d’amore nel cuore per quel bambino, com’erano le nonne di una volta, che per i primogeniti maschi stravedevano: “luce dei miei occhi”. La Madonna è quasi una ragazzotta inespressiva, e del resto di una madre Raffaello ebbe troppo breve esperienza. Sullo sfondo, sepolto quasi in un’ombra punitiva, c’è il povero Giuseppe, che qui ha forse l’ingrato compito di ricordare il tradimento dei padri, quello di Raffaello, Giovanni Santi, che al giovane prodigio a quanto pare fece mancare il suo affetto. Che in quella sant’Anna ci sia dunque il ricordo di chi prese in qualche modo il posto della mamma morta giovane? Sia pure con una resa più umana e meno sublime, il tema si ripone nella Madonna dell’Impannata, che precede di qualche anno quella del Divino Amore.

Ho scritto sublime. E qui ci sarebbe un capitolo importante da sviluppare, che veda Raffaello corresponsabile fonte visiva di una cultura moderna del perturbante e dell’inquietante. Se il Giudizio Universale coi toni scuriti dai fumi e lo sporco precedenti il restauro di vent’anni fa si sposava a meraviglia con la lingua terribile che Vasari attribuiva a Michelangelo, la classicità di Raffaello sotto le apparenze di grazia e bellezza luminosa cela atmosfere lunari, e mentre dispensa nella Roma del suo tempo immagini di Chiesa trionfante, in realtà si potrebbe dire che svolge un ruolo da Katechon, che si oppone alla fine dei tempi.

Terribilità e grazia, in lui, convivono sotto una eclissi di Luna. La Trasfigurazione di Raffaello (non esposta) è quanto di più s’avvicina al Michelangelo amato dai romantici e al tempo stesso segna un confine drammatico fra mondo e realtà celeste (più perturbante del Giudizio Universale, come anche la Madonna Sistina (non esposta) che incede verso di noi col volto spaventato: Vassilij Grossman la vide come simbolo della madre che attraversa le tempeste della storia). La mostra, notevole per prestiti e numero di opere (tra cui i bellissimi disegni), ha dunque tutti i crismi e i limiti delle mostre celebrative ma col vantaggio di svolgersi in una città disseminata di opere raffaellesche. Non avrebbe senso, dunque, pesare quel c’è e quel che manca, in qualche caso vuoto doloroso come la Madonna Sistina.

Concludo con quello che ritengo un gesto compiuto per guastare la festa. Pochi giorni prima dell’apertura della mostra, il comitato scientifico degli Uffizi si è dimesso in blocco. Motivo? Un prestito giudicato inopportuno e grave, quello del ritratto di Leone X che il direttore Schmidt – in quanto co–organizzatore della mostra – ha inviato, con numerose altre opere degli Uffizi, alle Scuderie. Dipinto da poco restaurato che ha ricevuto il benestare degli stessi restauratori per viaggiare. Ma il comitato aveva incluso l’opera in un ristretto gruppo di ventisei inammovibili. Era necessario dimettersi? Non bastava, per esempio, una lettera di dissenso? Bisogna ricordare che si tratta di un organo consultivo e che fra i consiglieri scientifici c’è il barricadero Tomaso Montanari che polemizza su ogni cosa, e qualche volta ci prende, ma altre volte sorvola e tace (come quando scrisse un paio d’anni fa un pamphlet contro le mostre dimenticando però qualcuno per strada). Dimettersi con clamore – quando Montanari grida, la stampa registra – questa volta era inopportuno. Guardando in faccia il papa di Raffaello si capiscono molte cose, a cominciare dalla perfidia del pittore cui le faide o gli intrighi della corte pontificia poteva sembrare che passassero sopra la testa, ma in realtà, da genio consapevole, ci teneva a dar prova delle sue doti di rivelatore e di sacrificatore che non perdona a nessuno di nascondersi, tanto più sotto la mitra.

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