venerdì 23 giugno 2023
Nel Museo di Franco Maria Ricci una mostra sull'artista mantovano che fu celebre tra le due guerre e poi visse in disparte fino a compiere cento anni di vita nel 1995
Ugo Celada da Virgilio, "Bambina che legge" (1938, particolare)

Ugo Celada da Virgilio, "Bambina che legge" (1938, particolare) - Fondazione Cavallini-Sgarbi

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Paradossalmente, nella pittura di Ugo Celada da Virgilio – l’aulico cognome se l’era dato mutuando quello del suo luogo natìo nel Mantovano – la nitidezza immobile dell’immagine risulta inversamente proporzionale all’afferrabilità della sua visione artistica. Che il mistero fosse già compreso nel suo cognome, Celada? Se il vocabolo rimanda alla viticultura (al bigoncio, un secchio in legno), tuttavia ben presto identificò un particolare elmo aperto, che proteggeva il cranio e la testa, ma lasciava esposta parte della faccia. Pare che la “celata” (in spagnolo celada) faccia la sua prima comparsa in qualche inventario d’armi dei Gonzaga all’inizio del XV secolo. Ed essendo il nostro pittore originario di quelle terre, chissà che il suo cognome non abbia a che fare con Bacco e Marte al tempo stesso, i fumi dell’alcol e quelli del sangue. La sua pittura in effetti sta tra l’incanto dello sguardo e un furore gelido, quasi sadico, che scolpisce i corpi e le forme come in preda a un rictus sardonico che fa sembrare ogni ritratto una maschera più vera del vero, ma sempre un po’ sopra le righe anche quando corteggia la bellezza femminile.

Chi cura la mostra di Celada in corso fino al 17 settembre al Labirinto della Masone di Fontanellato, vicino a Parma, per esempio è convintissimo che il pittore abbia scelto senza indugi il partito del Realismo, fin da quando si formò con Cesare Tallone, salvo poi chiosare sul suo stile che sembra indulgere a una forma neoclassica: il canone di riferimento andrebbe cercato appunto tra Hayez e Canova. Non sono tra gli amateurs di Celada. I suoi dipinti li conoscevo soprattutto dalle fotografie, per me quindi la mostra parmense è stata una “scoperta” ma anche un modo per mettere alla prova gli “stereotipi” critici che pesano sulla pittura di Celada. D’altra parte, ripercorrendo le poche notizie biografiche si potrebbe dire, parafrasando Eraclito, che Celada da Virgilio era un pittore che amava nascondersi nella sua arte; così, l’elmo che indossa come un ossimoro è il suo silenzio operoso e ostentato che rimbalza da una parte all’altra fra gli spazi che dipinge. Raccolse prestissimo l’elogio di Èmile Bernard, il pittore e critico fondatore del gruppo di Pont-Aven, che nel 1926 visitando la Biennale di Venezia di fronte al quadro Distrazione lo definì quanto di meglio si produceva in Italia, opera di cui oggi si sono perdute le tracce.

Ugo Celada da Virgilio, 'Ritratto di uomo' (senza data)

Ugo Celada da Virgilio, "Ritratto di uomo" (senza data) - Fondazione Cavallini-Sgarbi

Qualcuno ritiene che Celada abbia pagato una certa franchezza verso i pittori della Sarfatti raccolti sotto l’insegna “Novecento”, quando nel 1931 sottoscrisse con altri artisti mantovani una lettera pubblicata sul periodico “Regime fascista” diretto da Farinacci, nella quale si protestava per lo strapotere che quel gruppo esercitava, a cominciare dalle selezioni dei nomi che avrebbero partecipato alla Biennale di Venezia del 1932. Si tratta di una data cruciale per le arti italiane: cadevano infatti i dieci anni dalla Marcia su Roma e si stava preparando la mostra della Rivoluzione fascista, che durò fino al 1934 e fu vista da milioni di italiani, risultando anche redditizia. Tuttavia, ritengo che una lettera come quella, nel clima dialettico che all’epoca segnava il dibattito tra gli artisti, può anche gettare un’ombra su chi la firmò, ma considerando la pittura “classica” di Celada mi viene da dire piuttosto che la Sarfatti avrebbe potuto anche passarci sopra, considerando poi che il 1932 è l’anno dove Mussolini volta le spalle alla sua intelligentissima stratega dell’arte, e che i rapporti tra i due andarono vieppiù peggiorando fino al 1938, con le Leggi razziali (lei era ebrea), costringendola a fuggire prima a Parigi e poi in Argentina col figlio.

Il fatto è che il nostro pittore è un enigma personificato. Una sorta di sfinge in veste di pictor optimus, e il rimando a De Chirico non è affatto casuale. Intanto, ebbe una vita lunghissima, morendo centenario nel 1995 a Varese. Nel 1985, curando il catalogo della collezione di Borgo Virgilio, Flavio Caroli riaccese i riflettori su questa figura “nascosta”, che aveva continuato a dipingere in disparte, e sarebbe fin troppo facile osservare che il silenzio è la figura retorica che riempie gli spazi nella sua pittura. La critica ha spesso riproposto accostamenti che non fanno una piega: la metafisica, Valori plastici, il Realismo magico, volendo si potrebbe persino evocare una latenza surrealista, che gioca a declinare la “magia” nelle allusioni alla sfera psichica. Eppure, il riferimento alla carnalità di Celada – in particolare, per i nudi femminili, ma anche per certi ritratti forse ancor più sensuali all’apparenza: si pensi al bellissimo dipinto che ritrae la moglie seduta con le braccia che si distendono nelle mani congiunte sulle ginocchia, il generoso décolleté e l’abito che le fascia il corpo, slanciando tutta la figura sullo sfondo di un paesaggio composto di stratificazioni quasi astratte –., l’idea dunque che il corpo femminile, sodo e classicheggiante sia nelle forme sia nei riferimenti alla pittura del passato, non bastino a fare di Celada un pittore sensuale, è manifesta.

Ugo Celada da Virgilio, 'Mia Moglie' (1930 c.)

Ugo Celada da Virgilio, "Mia Moglie" (1930 c.) - Collezione Cagnin

C’è sempre qualcosa di sublimato nel modo in cui affronta le forme delle donne: classiche, certo; metafisiche, a volte; magiche, cioè atte a comunicarci il suo sentimento del meraviglioso e dell’incanto. Di fronte al Nudo di schiena del 1930, non ho pensato ad Hayez, lui sì carnale quasi per iperrealismo, mi è tornata in mente però una osservazione apparentemente prosaica di Jean Clair riferita ai nudi femminili di Arturo Martini che mostrano le terga, dove appunto il critico sottolinea la potenza erotica del “culo” nelle nude dello scultore trevigiano. È una osservazione che forse non si sarebbe potuta fare sostituendo Martini con Canova, sempre troppo idealizzante. E qui mi ricollego al riferimento che torna spesso anche nei saggi di Valerio Terraroli e Cristian Valenti che accompagnano il catalogo della mostra, dove si sottolineano le affinità con la pittura di Cagnaccio di San Pietro. Vicinanza che vale, credo, più per soggetti come il Pescatore del 1951 ma già molto meno per il Cavatore inginocchiato o Gli spaccapietre, che credo risentano di influenze nordiche, sia pure con le debite differenze, ricordano certe figure di Permeke, certo con un’aura assai più luminosa. Lontanissimi mi sembrano invece i nudi di Celada da un quadro come Dopo l’orgia, dove Cagnaccio vomitò con lucidissima spietatezza il suo veleno sul proprio tempo, dominato da borghesi e fascisti – siamo nel 1928 –, induriti in una rete simbolica che ne svela i vizi e la protervia. Il dipinto di Cagnaccio – come giustamente ricorda Terraroli – ha una chiara dipendenza d’ispirazione dal dipinto di Casorati Meriggio, che è del 1924. Ed è a questo, oltre alle memorie rinascimentali, che sembra risalire Celada nei suoi nudi, plastici e “quieti” nella sostanza. Come avrebbe potuto avere in mente di Casorati anche Conversazione platonica del 1928, dove la carnalità del nudo si scioglie nella platonicità del rapporto con l’ombra che avvolge l’uomo, in un costrutto mentalistico, che in Celada immobilizza le forme amplificandone la percezione in una vibrazione sottopelle.

Ugo Celada da Virgilio, 'Ritratto di uomo con occhiali' (senza data)

Ugo Celada da Virgilio, "Ritratto di uomo con occhiali" (senza data) - Collezione Franco Maria Ricci

I ritratti, di cui possiamo avere qualche esempio eccellente nella mostra, ci fanno comprendere come i riferimenti del nostro pittore siano anche oltre frontiera, nella Germania della Neue Sachlichkeit, in figure come Schad: questo già nell’Autoritratto con manichino, ma si vedano Ritratto d’uomo con occhiali, che fa parte della collezione di Franco Maria Ricci, quello di Angelo Motta del 1950 o infine il Ritratto di uomo della collezione Cavallini-Sgarbi; mentre nel Realismo magico si collocano maggiormente la Bambina che legge del 1938, i cui occhietti ironici fanno pendant col libro d’arte aperto sulle ginocchia, oppure Il conte di Castelbarco del 1940.

L’arco piuttosto ampio nel quale si collocano ritratti eseguiti con una notevole permanenza stilistica (andranno certamente compulsate le sfumature e i dettagli che determinano la temporalità di questa “pittura senza tempo”), ci dice anche quanto si debba ancora lavorare per determinare una cronologia coerente e affidabile laddove spesso i dipinti non recano date di esecuzione. Se, per esempio, Valori plastici è stato spesso chiamato in causa, un nome che Celada può aver considerato quando dipingeva le sue nature morte cristalline e metafisiche è quello di Edita Broglio, che tra l’altro fu col marito Mario la fondatrice della omonima rivista uscita dal 1918 al 1921 in una quindicina di numeri, ovvero negli anni in cui il talento di Celada stava andando a registro.

Due parti anatomiche risaltano pressoché sempre nelle figure di Celada: le mani, tra le più belle ed eleganti che si vedano pittura italiana della prima metà del Novecento. Per esempio quelle del Ritratto di donna in abito rosa del 1950, che sembra quasi rivolgersi ammiccante allo spettatore chiedendogli: quale parte del mio corpo di colpisce di più, le mani o gli occhi che incorniciano il mio décolleté? L’altra parte dove Celada eccelle è il volto: è ancora la moglie a imporsi con una piccola tela,tra le cose più belle e ipnotiche di questa mostra: ritratta di tre quarti ci osserva con candida consapevolezza di sé, quella di chi sa che a guardare è lei e ci legge nei nostri retropensieri mentre la osserviamo.

Ci sarà ancora molto da scrivere su Celada, un pittore “inattuale”, come dice la cronologia incerta di tante sue opere, perché il suo silenzio come una maschera dissimulatrice ci priva di tanti appigli sui quali costruire il ritratto che ancora ci sfugge della sua vita pittorica.

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